RSS Feed

La terza via (quella giusta) del rapporto tra politica e giustizia

0

February 12, 2022 by Mosè Viero

Quand’ero un giovane virgulto che cominciava a interessarsi di politica, le pagine dei quotidiani a essa dedicati erano in realtà per la gran parte occupate da cronaca giudiziaria: si era negli anni della cosiddetta Tangentopoli e quasi non passava giorno che qualche esponente di qualche partito non venisse indagato (o direttamente arrestato) per qualche fattispecie collegata solitamente alla corruzione. Lo spadroneggiare della magistratura sulla politica era talmente endemico da essere diventato ambiente: per molti della mia generazione, la politica era essenzialmente farsi strada tra le fila degli inquisiti alla ricerca di un qualche rappresentante non dico pulito ma almeno vagamente presentabile al quale meditare di affidare il proprio voto.

La retorica del politico corrotto versus magistrato integerrimo dava fiato ad autentici paradossi: la sinistra anche estrema, con la quale il sottoscritto all’epoca si identificava, andava a braccetto con il giustizialismo duro e puro, trasfigurando lo scontro in atto tra poteri diversi come una battaglia tra il potere (la casta) e funzionari pubblici descritti come indipendenti e disinteressati. Il cortocircuito finì, ovviamente, per ritorcersi contro tutti i politici, anche contro coloro che tentarono di cavalcare l’onda: se per anni la narrazione maggioritaria descrive l’investitura tramite il voto come sinonimo di partigianeria potenzialmente corrotta e l’investitura tramite concorso come sinonimo di purezza, è chiaro che la politica tutta ne esce gravemente delegittimata.

Intendiamoci: i magistrati all’epoca fecero semplicemente il loro lavoro, anche se con qualche eccesso e gongolando un po’ troppo per l’improvvisa ribalta mediatica. Ma a essere problematica non fu tanto l’opera dei giudici, quanto la reazione che a essa ebbero i politici. Dal tempo di Craxi fino a quello di Berlusconi, possiamo distinguere due modalità di risposta politica all’annuncio urbi et orbi della partenza di qualche inchiesta giudiziaria: la modalità di difesa dal processo e la modalità di difesa disarmata.

Gli appena citati Craxi e Berlusconi rappresentano molto bene, soprattutto il secondo, la modalità di difesa dal processo. Il politico viene accusato di determinate nefandezze e si difende non nelle sedi deputate, ossia cercando di dimostrare la sua innocenza tramite argomentazioni offerte in prima persona o attraverso avvocati, quanto piuttosto cercando di boicottare il funzionamento della macchina della giustizia. Ecco allora i mille rinvii, la ricerca esasperata della prescrizione, i legittimi impedimenti e tutto il corollario delle cosiddette leggi ad personam. È chiaro che questa reazione è del tutto incompatibile con il sistema democratico liberale: la politica deve essere indipendente dalla giustizia ma deve accettarne regole e meccaniche, altrimenti salta tutto.

La seconda modalità di difesa, che ho chiamato disarmata, l’abbiamo vista in azione quasi tutte le volte che a essere messo sotto processo è stato un esponente della sinistra, o in generale qualunque politico che non avesse il potere mediatico ed economico di Berlusconi (cioè quasi tutti). Il malcapitato messo sotto indagine semplicemente accetta il suo destino supinamente, magari mettendosi da parte o facendosi mettere da parte da qualcun altro, e ripetendo a ogni piè sospinto il mantra “io ho fiducia nella giustizia”. Un’affermazione che suonerebbe ridicola se applicata a qualunque altro gruppo di funzionari pubblici. Vi immaginate un politico intervistato su uno sciopero dei dipendenti della nettezza urbana che comincia dicendo “premetto che ho una grande fiducia negli spazzini”?

Il politico che di fronte a un’indagine a suo carico si finge morto, anche quando l’indagine è chiaramente costruita sul nulla, incarna anch’egli una reazione del tutto inadeguata, uguale e contraria a quella berlusconiana di cui sopra. Visti i tempi dei processi in Italia, il politico che accetta supinamente la sua messa in stato di indagine accetta di avere la sua immagine associata per anni a un reato; e se accetta di mettersi da parte durante tutta la durata del processo, egli conferisce alla magistratura un potere abnorme e del tutto anticostituzionale. Se dopo anni il processo si conclude con un’assoluzione, chi ripagherà non tanto il politico per la sua carriera compromessa, quanto l’elettorato per essere stato privato di un suo legittimo rappresentante?

Questo letale dualismo tra politici che si ribellano al potere giudiziario negandogli i mezzi per lavorare e politici che accettano supinamente qualsiasi decisione dei magistrati dando a loro un potere imprevisto non è però l’unica realtà possibile. Lo sta dimostrando in queste ore il leader di Italia Viva Matteo Renzi, messo sotto processo per le modalità con cui è stata finanziata la fondazione Open, responsabile dell’organizzazione della Leopolda, l’evento che ogni anno riunisce i renziani. Non mi imbarcherò qui nell’analisi dettagliata dell’accusa, che è assolutamente demenziale e si risolverà al cento per cento in un buco nell’acqua per i magistrati. Quel che mi interessa è il piglio con cui Renzi sta affrontando la questione. Anziché fare la faccia contrita e ripetere il mantra “ho fiducia nella giustizia”, Renzi ha reagito denunciando i magistrati che l’hanno messo sotto processo e affermando pubblicamente che, udite udite, non si fida di loro. E vorrei vedere: uno è stato condannato per molestie sessuali e in qualunque altro ordine professionale avrebbe perso il posto; un altro ha inquinato la scena del crimine durante le indagini sul presunto suicidio di David Rossi, capo della comunicazione del MPS; il terzo, infine, ha messo sotto processo tutti o quasi gli esponenti della famiglia Renzi ed è stato sempre sconfitto dall’esito dei procedimenti.

L’associazione di categoria dei magistrati, che si guarda bene dall’aprire bocca quando un giudice ha comportamenti dissennati, è subito intervenuta dicendo che con i suoi gesti e le sue dichiarazioni Renzi “delegittima” la magistratura. Alla tesi si sono subito accodati i grandi giornali, soprattutto della sinistra, che non vedono l’ora di comprovare la sempreverde narrazione secondo cui Renzi sarebbe uguale a Berlusconi (se non peggio). Ma è esattamente il contrario: Renzi non vuole in alcun modo sottrarsi al processo, anzi ha chiesto alla giustizia italiana, tramite una denuncia, di occuparsi ancora di più del suo caso. Quel che sta accadendo, e a cui forse non eravamo più abituati, è che c’è un politico che non accetta di veder compromessa la propria carriera e la propria immagine tramite un processo costruito sul nulla, e che, sapendo di aver ragione, non cerca di boicottare quel processo ma lo affronta trattando i giudici come suoi pari e non come entità ultraterrene e incorruttibili.

Un Paese normale funziona esattamente in questo modo: politica e giustizia agiscono indipendentemente e non devono mai accettare di essere messi uno al servizio dell’altro. Se i giudici che hanno messo Renzi sotto processo pensano di avere ragione, non avranno problemi a dimostrarlo; così come non avranno problemi a dimostrare la loro indipendenza rispondendo alle accuse del senatore, che le ha fatte non (solo) facendo roboanti dichiarazioni ma mettendosi nelle mani della giustizia. Il punto forse è proprio questo: ci si difende nel processo e non dal processo, ma al contempo non si può accettare che quel processo condizioni vite e carriere prima di arrivare a compimento. Chi adesso versa lacrime di coccodrillo fingendo di difendere la giustizia contro l’arroganza della politica non vuole affatto giustizia, ma vuole, semmai, il trionfo della cultura del sospetto. Che è esattamente ciò che inquina la nostra vita pubblica da Tangentopoli a oggi. È ora di voltare pagina.


0 comments »

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *