Istruzioni su come fare arte militante: il caso Tananai
2February 16, 2023 by Mosè Viero
Quand’ero giovane, ero molto scemo. Credevo di avere un’identità politica molto forte, molto estrema, rigorosa, del tutto aliena da possibilità di compromesso. E vedevo questa mia identità politica come un tratto fondamentale della mia identità generale. Una mia descrizione sommaria ideale sarebbe suonata così: io sono Mosè, sto facendo questo percorso di studi e ho questa identità politica. Tutto il resto poteva cambiare, ma il nome, la ‘vocazione’ e la posizione politica erano in un certo senso degli assoluti. È una fattispecie che immagino piuttosto comune, soprattutto tra coloro che si collocavano a sinistra: i giovani d’oggi sembrano un po’ diversi, e questo è sia un bene sia un male. Ma non è quello di cui vorrei parlare in questa sede.
Negli anni in cui mi descrivevo come sopra mi capitò, come tutti da giovani, di avere varie avventure sentimentali. Quando ne cominciavo una nuova, sbattevo la mia identità politica in faccia alla malcapitata nella prima occasione possibile: come se l’affinità in quell’ambito fosse tra i criteri principali con cui scegliere un partner. Il più delle volte andava bene perché ‘pescavo’ da un mondo di persone simili a me. Una volta, però, una mia fiamma reagì malissimo a questa cosa, e ribatté alla mia presa di posizione con un argomento che mi mise in seria difficoltà. Il suo problema non era che avessimo opinioni politiche diverse: era che mettersi a parlare di temi del genere di punto in bianco con una persona conosciuta da poco era fortemente inappropriato perché così facendo avrei costretto quella persona a prendere una posizione, magari su problematiche su cui non aveva ancora riflettuto abbastanza. Io, nella mia totale e indifendibile ingenuità, risposi che no, non la stavo costringendo a prendere una posizione, stavo solo esprimendo la mia, di posizione. Lei a quel punto mi guardò col sopracciglio alzato, come si guardano le persone che passano la vita a studiare ma restano comunque imbecilli (il mondo ne è pieno): è il fatto stesso che tu parli di questi temi che mi costringe a prendere una posizione, mi disse. Anche solo guardarti in un modo o in un altro è prendere una posizione. E se io sul conflitto tra Israele e Palestina (esempio a caso) non fossi adeguatamente informata? Perché me ne parli di punto in bianco? Cosa ha a che fare con noi, questo argomento, qui e ora? Ovviamente quella giovane donna aveva pienamente ragione: e ce l’aveva anche quando mi mollò poco tempo dopo.
È, questo, un discorso che potremmo tranquillamente traslare a tutte le operazioni di comunicazione politicamente o socialmente schierate: anche e soprattutto se si parla di comunicazione di massa. Un artista che sbatte in un film, o in un disco, o in un libro una sua posizione in termini assoluti e indiscutibili riuscirà inevitabilmente a parlare solo a chi quella posizione ce l’ha già. Sugli altri avrà un effetto di rigetto e darà quasi sempre l’impressione che non si tratti di vera comunicazione ma di un vacuo soliloquio, in cui il compito dell’ascoltatore è solo prendere atto, annuire, assentire. Proprio come succedeva col me stesso arrogante e autoriferito di vent’anni fa. Intendiamoci: nel campo della comunicazione di massa questa può anche essere una scelta ‘poetica’ precisa. Ci sono fior di artisti che si rivolgono solamente alla loro ‘bolla’ e a loro, così come al pubblico, va benissimo così. Uno dei compiti dell’arte è anche riconfermarci nelle nostre idee, nella nostra comfort zone intellettuale e ideologica. Ma converrete con me sul fatto che la vera arte militante è quella che cerca di smuovere le coscienze, di farci mettere in discussione, di spingerci all’azione, anche se l’azione è ‘solo’ la rimozione di gabbie mentali.
Ma come si fa a prendere una posizione su temi seri e importanti senza mettersi nei panni intrisi di sicumera di chi ci pone di fronte a una verità assoluta e pretende da noi solo un cenno di assenso? Ce lo dimostra con modalità perfette, da manuale della comunicazione artistica, il pezzo portato da Tananai all’ultimo Festival di Sanremo e intitolato Tango.
Dopo il primo ascolto riservato ai giornalisti, questi ultimi affermarono in coro che si trattava di una bella ballad sentimentale strappalacrime. Non esattamente qualcosa di nuovo, soprattutto nel contesto sanremese. Riporterò per intero il testo della canzone, firmata dal cantante assieme a Davide Simonetta, Paolo Antonacci e Alessandro Raina.
Non c’è amore senza una ragazza che pianga,
non c’è più telepatia.
È un’ora che ti aspetto,
non volevo dirtelo al telefono.
Eravamo da me, abbiamo messo i Police;
era bello finché ha bussato la police.
Tu fammi tornare alla notte che ti ho conosciuta,
così non ti offro da bere e non ti ho conosciuta.
Ma ora addio, va bene amore mio,
non sei di nessun altro e di nessuna io.
Lo so quanto ti manco ma chissà perché Dio
ci pesta come un tango e ci fa dire:
Amore, tra le palazzine a fuoco
la tua voce riconosco:
noi non siamo come loro,
è bello, è bello, è bello,
è bello stare così,
davanti a te in ginocchio
sotto la scritta al neon di un sexy shop.
Se amarti dura più di un giorno
è meglio, è meglio, è meglio
se non rimani qui:
io tornerò lunedì.
Come si salva un amore se è così distante?
È finita la poesia.
È un anno che mi hai perso,
è quel che sono, non volevo esserlo.
Eravamo da me, abbiamo messo i Police;
ridevamo di te che mi sparivi nei jeans.
Tu fammi tornare alla notte che ti ho conosciuta,
così non ti offro da bere e non ti ho conosciuta.
Ma ora addio, va bene amore mio,
non sei di nessun altro e di nessuna io.
Lo so quanto ti manco ma chissà perché Dio
ci pesta come un tango e ci fa dire:
Amore, tra le palazzine a fuoco
la tua voce riconosco:
noi non siamo come loro,
è bello, è bello, è bello,
è bello stare così,
davanti a te in ginocchio
sotto la scritta al neon di un sexy shop.
Se amarti dura più di un giorno
è meglio, è meglio, è meglio
se non rimani qui:
io tornerò lunedì.
Ma non è mai lunedì.
Tutto sembra rientrare nel caso di specie: lui parla alla sua lei, per qualche ragione sono lontani, ma il loro amore li tiene comunque uniti, soprattutto grazie alla forza del ricordo di quando erano assieme. Il filo di speranza per un ricongiungimento sembra infrangersi sul finale: lui tornerà lunedì, ma non è mai lunedì. Ci vengono in mente tante situazioni ahinoi piuttosto comuni: per esempio un lavoro che costringe lui a viaggiare lontano, magari per mantenere la famiglia che si trova all’altro capo del mondo. Nell’intervista rilasciata a Sorrisi e Canzoni, d’altro canto, lo stesso cantante dichiarava: «Per la prima volta ho deciso di immaginare una storia che non mi appartiene, un amore a distanza. L’idea è nata parlando con una persona che sta vivendo una relazione di questo tipo».
Dopo la prima esibizione, tutto sembra assolutamente normale: bel pezzo sentimentale, ben cantato, ottimamente arrangiato così da sfruttare per bene l’orchestra. Anche le interviste del cantante nel backstage subito dopo la performance non regalano particolari sorprese. Poi a notte fonda esce il videoclip del pezzo: e all’improvviso il senso e il ‘peso’ della canzone cambiano completamente. L’amore a distanza evocato dal brano, infatti, è quello tra una donna ucraina scappata in Italia e il suo uomo che combatte per la libertà del suo Paese. Nel narrare la storia straziante di questa coppia, il videoclip mostra le immagini del conflitto prendendo nettamente posizione e conferendo un senso del tutto nuovo a molte delle parole del testo. Testo che però può continuare a essere tranquillamente interpretato in modo ‘generico’, grazie a una padronanza mirabile nell’utilizzo delle metafore.
Facciamo alcuni esempi.
Eravamo da me, abbiamo messo i Police;
era bello finché ha bussato la police.
La polizia può bussare a una casa per mille motivi. Magari perché i vicini hanno chiamato per via della musica troppo alta. O magari perché la coppia si sta sollazzando con sostanze proibite. Ma anche: la polizia arriva perché è in atto il reclutamento per una improvvisa invasione nemica.
Amore, tra le palazzine a fuoco
la tua voce riconosco.
Le “palazzine a fuoco” sono rappresentazione metaforica del mondo ostile, magari straniero, in cui si trova lui. Ma anche: sono davvero palazzine a fuoco, perché c’è una guerra e ci sono bombardamenti.
Noi non siamo come loro.
La nostra storia d’amore è diversa da tutte le altre: perché a ciascuno di noi, quando viviamo una storia d’amore intensa, sembra di essere gli unici a provare sentimenti così forti e così destabilizzanti. Ma anche: noi non siamo come loro perché loro ci hanno invaso agli ordini di un despota feroce mentre noi combattiamo per difendere la nostra libertà e la nostra democrazia.
Se amarti dura più di un giorno
è meglio, è meglio, è meglio
se non rimani qui.
Se vogliamo che la nostra storia d’amore duri, è bene che tu stia a casa, in un luogo amico: starò solo io qui, a lavorare in questa terra straniera e ostile. Ma anche: questa è casa nostra, ma tu te ne devi andare perché qui c’è una guerra.
È un anno che mi hai perso,
è quel che sono, non volevo esserlo.
Sono via da un tempo lunghissimo: mi tocca farlo perché sono povero e questo è l’unico modo che ho per darti un’esistenza dignitosa. Ma anche: sono via da esattamente un anno perché la guerra è cominciata esattamente un anno fa. E sono in guerra perché penso sia la cosa giusta da fare: non ho scelto io di fare la guerra ma DEVO farla perché è il mio dovere.
Dopo che il significato della canzone è diventato chiaro grazie al video, Tananai comincia a “rompere le righe” anche sul palco, ma sempre in modo sommamente discreto. Per esempio ringraziando la coppia che lo ha ispirato facendo i loro nomi, oppure tenendo in mano due rose con i colori della bandiera ucraina mentre scende le scale. Niente di eclatante, nessuna azione di pura e semplice affermazione assiomatica di una idea o di un principio: quasi che non si volesse troppo disturbare chi vuole solo godersi una bella canzone d’amore.
Vent’anni fa avrei pensato: guarda che pavido quest’uomo, che vuole parlare di guerra ma non ne parla davvero fino in fondo, anzi sembra quasi far finta di parlare d’altro. E invece è proprio così che si fa arte militante, l’arte capace di smuovere le coscienze. Alla presa di posizione ottusa, quella che sottintende “è così come dico io e se tu la pensi diversamente io ti rispetto ma sotto sotto penso che sei un cretino”, la vera arte militante contrappone la sublimazione del tema forte dentro dinamiche di vita sperimentate da tutti e quindi capaci di risuonare nell’esperienza di ciascuno di noi. Tutti siamo o siamo stati innamorati: tra le tante sofferenze causate da una guerra, c’è anche quella causata alle coppie divise e alle famiglie forzatamente tenute separate. Riducendo il grande tema geopolitico ed economico al suo lato immediatamente sperimentabile, l’artista ci coinvolge tutti, anche coloro che non si interessano di geopolitica e di economia.
Ma in questo caso c’è un di più: nel compiere questa operazione, l’artista si premura anche di ‘nascondere’ il grande tema dietro a un velo di (finte) metafore. Questo ci lascia la piena libertà di decidere in autonomia quanto e se essere coinvolti nel messaggio. L’artista è tanto più abile quanto più ha rispetto del suo pubblico: e il modo migliore per esprimere questo rispetto è lasciare quanta più libertà possibile nel ‘maneggiare’ l’arte e nel farla propria. Il critico che interpreti tutto questo come ambiguità o peggio pavidità è completamente fuori strada: è esattamente il contrario. È l’artista arrogante e assertivo, ovvero didascalico, a rinnegare se stesso, il suo ruolo e la sua funzione. A suo tempo criticai pesantemente un pezzo come Non ci avete fatto niente del duo Meta-Moro proprio per questo: perché era puro e semplice didascalismo, in quel caso inoffensivo e stucchevole anche perché riguardante un tema su cui non c’era alcuna divisione o alcun dibattito. Nel caso di Tango ahinoi il dibattito c’è eccome: in Italia siamo pieni di fan del dittatore guerrafondaio che occupa il Cremlino. Ebbene, io sono convinto che l’operazione condotta così sapientemente da Tananai e dalla sua squadra di autori possa fare per la causa ucraina più di tanti congressi, articoli sui giornali, approfondimenti nelle riviste di settore. Il potere dell’arte è immenso: ma solo se si padroneggia a fondo quella che è la caratteristica primaria del linguaggio artistico, ovvero il suo essere multiforme, non univoco, ‘laterale’. E quindi universale.
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Bellisime riflessioni Mosè!
Grazie! 🙂