Il gradiente Disney
0April 21, 2014 by Mosè Viero
Diciamoci la verità: prendere applausi, inchini e riverenze parlando male dei politici è facile come rubare una foglia di lattuga a una lumaca. Oggi, però, mi avventurerò dentro un territorio assai più complicato: un territorio dove anche le persone apparentemente più consapevoli e preparate spesso perdono la bussola e si mettono a vagare senza meta, alla mercé del primo imbonitore che passa. L’avventatezza mi farà perdere qualche amico. Poco male: sta arrivando l’alta stagione turistica, non avrei comunque avuto tempo di badare a voi.
Ieri era Pasqua, il giorno in cui i cristiani di tutto il mondo celebrano la morte e resurrezione del loro dio mangiando uova di cioccolata. Nelle settimane che precedono l’evento, la rete viene invasa da tonnellate di immagini di vezzosi agnellini, spesso rappresentati dentro amene atmosfere bucoliche, simili a quelle che fanno da sfondo alle raffigurazioni dell’armonia universale nei pieghevoli dei Testimoni di Geova. L’estetica serve a rendere più efficace il ricatto emotivo: “abbasso le stragi pasquali di agnelli!” Di fronte a tutto ciò, il razionalista che è in me entra in fibrillazione: per senso di rivalsa, mi capita spesso, dopo aver recepito simili appelli, di uscire e di uccidere a testate il primo animale che mi passa davanti, così da potermi cibare delle sue carni ancora crude.
Intendiamoci: il bello della libertà è che ognuno può rovinarsi la vita come meglio crede. Per quanto mi riguarda, i vegetariani e i vegani non sono meno ridicoli di coloro che non fanno altro che cibarsi di sushi: per me non c’è nessun problema, almeno finché una di loro non diventa la mia fidanzata. A non andare bene, però, è il voler vestire le proprie scelte alimentari, private e insindacabili, di un qualche valore etico e morale. Quando questo succede, basta un niente a trasformare un qualcosa di apparentemente innocuo come una scelta alimentare in una sorta di pseudo-para-religione, con tanto di condanna apodittica degli ‘eretici’ che osano discostarsene.
Cominciamo col chiarire alcuni punti. Anche se qualche invasato a volte tenta di convincerci del contrario, l’homo sapiens sapiens è onnivoro da sempre. Scelte radicali come il vegetarianesimo o il veganesimo sono diventate possibili solo nell’epoca contemporanea, e solo nei paesi ricchi. Una prima palese contraddizione negli adepti della religione animalista è proprio questa: dipingere come ‘naturale’ una scelta ultra-artificiale, accessibile per giunta solo a chi è stato abbastanza fortunato da nascere in un paese ricco. Volendo andare al di là di questa semplice osservazione, non c’è nulla di ‘naturale’ e neanche di razionale o tanto meno di logico nell’idea secondo cui non bisognerebbe uccidere nessun essere vivente: il fatto che il debole soccomba al più forte è anzi la più elementare legge di natura. Ed è una condizione assolutamente necessaria affinché ogni ecosistema continui a mantenere il suo equilibrio: se davvero l’umanità intera rinunciasse al ruolo che la natura le ha affidato, molte specie animali prolifererebbero in maniera del tutto incontrollata, mettendo a repentaglio l’esistenza di molte più specie di quelle che si estinguono a causa dei nostri abusi. Il problema è che gli animalisti immaginano la natura sulla base di criteri del tutto favolistici, come una specie di madre amorevole: la natura, al contrario, si basa su leggi spietate e su una selezione che non lascia scampo. Senza contare che spesso l’homo sapiens sapiens è descritto da questi sedicenti “amanti della natura” come una creatura che con la natura stessa non ha nulla da spartire: come se fossimo stati depositati su questo pianeta da alieni con l’unico scopo di devastare l’ambiente. Ebbene, anche noi facciamo parte della natura, e le modifiche che abbiamo impresso all’ambiente naturale sono parte della storia di questo pianeta: la necessità di evitare la devastazione del medesimo non deve certo passare per la messa in stato di accusa di qualunque interazione con esso.
Le disgustose immagini (peraltro spesso completamente de-contestualizzate) diffuse dagli animalisti per spingere l’ignaro pubblico verso il vegetarianesimo mostrano il più delle volte quel che avviene nei macelli e durante le mattanze. Non si può negare che certe modalità di produzione della carne siano da rivedere, e d’altro canto sempre più aziende del settore cercano di assecondare il bisogno da parte del pubblico di sapere con certezza che l’alimento che stanno per adoperare non provenga da filiere sospette. Purtuttavia, la pretesa di risolvere il problema bandendo la carne è da un lato molto stupida, dall’altro molto triste. Stupida perché una alimentazione priva di proteine animali è molto più difficile da gestire di una che le contempli; triste perché il progressivo radicamento del vegetarianesimo e del veganesimo metteranno a rischio sia secoli e secoli di tradizioni culinarie (e stiamo parlando di cultura, né più né meno di quando parliamo di pittura o di letteratura) sia l’esistenza stessa degli animali allevati. Per quanto sembri ridicolo, è così: i vegetariani stanno inconsapevolmente condannando all’estinzione tutti quegli animali che nella natura selvaggia che loro immaginano come unica natura possibile non sono mai esistiti.
Il vegetarianesimo, poi, si accompagna spesso a una preoccupazione che potremmo eufemisticamente definire eccessiva per tutto ciò che riguardi l’alimentazione. Anche in questo caso, a far paura sono gli estremismi, che attecchiscono con una facilità inaudita nelle nostre società tranquille e pasciute. È giusto stare attenti a ciò che mettiamo nello stomaco, ma senza che questo diventi un’ossessione, che può rendere difficoltosa financo la vita sociale e il rapporto col prossimo. Le tre-quattro persone che nel ristorante dove sono stato ieri si sono rifiutate di mangiare l’agnello hanno ottenuto, come risultato migliore della loro sbandierata militanza pro-life, una certa confusione presso cuochi e camerieri. E si sono perse, ahiloro, il piatto senza dubbio più riuscito di tutto il menu. L’ossessione per ciò che mangiamo è nient’altro che una nevrosi: si chiama ortoressia, e non ci vuole molto prima che la comunità scientifica la riconosca a livello ufficiale. Una nevrosi può anche avere un altissimo retroterra etico, ma rimane pur sempre una nevrosi.
Quando usciamo dall’ambito alimentare per toccare territori più seri e importanti, la componente folcloristica di tanto animalismo prende le forme di comportamenti autenticamente criminali. Basti pensare al florilegio di associazioni che si battono per vietare la “vivisezione”, tra le quali spicca, con i suoi banchetti che impestano spesso anche gli innocenti campi veneziani, la LAV. Qui bisogna fare attenzione perché la disonestà intellettuale di queste accolite di invasati tocca vette davvero sconosciute a noi ingenui raziocinanti. Anzitutto, il termine “vivisezione” è assolutamente improprio, perché fa pensare a strani e crudeli esperimenti fatti ‘tagliando’ le carni di poveri animali vivi e innocenti (e infatti le immagini a corredo delle vergognose campagne della LAV mostrano foto tremendamente splatter, che riguardano, quando va bene, metodologie usate cinquant’anni fa). In realtà il termine corretto è sperimentazione animale. Si tratta di una pratica non solo irrinunciabile per lo sviluppo della scienza e delle tecniche mediche da utilizzare sugli esseri umani, ma, particolare quasi sempre omesso dagli animalisti, anche per le tecniche mediche usate sugli animali. Detto in soldoni, così capiscono anche gli iscritti al WWF: il novanta per cento delle medicine e delle cure che usiamo sia sugli umani sia sugli animali proviene dalla sperimentazione animale. E i ricercatori che agiscono in questo campo hanno spessissimo una formazione veterinaria: si dedicano alla sperimentazione animale proprio perché hanno a cuore le sorti di tutti gli esseri viventi. Non proverò a scendere nel dettaglio perché mi mancano le competenze: posso però affermare senza ombra di dubbio che le pratiche crudeli descritte dalle associazioni contro la “vivisezione” semplicemente non esistono. La sperimentazione animale si svolge oggigiorno con una grandissima attenzione verso le condizioni dei soggetti coinvolti; d’altro canto, non si capisce per quale motivo dei ricercatori che hanno passato la loro vita chini sui libri dovrebbero covare tutta questa voglia di torturare e distruggere gli animali.
Già immagino la tipica obiezione: la sperimentazione sugli animali non sarebbe utile per l’uomo, dato che ciascuna specie ‘funziona’ in modo diverso. Questa affermazione tradisce una tale ignoranza sul metodo scientifico da far rizzare i peli sulla schiena anche ai gatti. La scienza fa previsioni tramite modelli: nessun modello sarà come l’originale, ma i risultati ottenuti su un modello sufficientemente vicino all’originale potranno aprire la porta a nuove ipotesi di ricerca. Quando si chiede quale alternativa dovremmo preferire alla sperimentazione animale (che, ricordo, è alla base del novanta per cento delle cure e delle medicine che usiamo), molti animalisti tirano in ballo i carcerati o i malati terminali. Questo è molto interessante perché fa emergere quanto poco basti per passare dall’animalismo al nazismo, che è l’unico regime ad aver ufficialmente ipotizzato la possibilità di sperimentare sugli esseri umani. D’altro canto, per mettere in evidenza il fascismo latente in tante associazioni contro la vivisezione, basta ricordare i violenti raid da esse organizzati periodicamente contro i laboratori in cui si pratica la sperimentazione animale. I ricercatori sono vittime di vere e proprie persecuzioni e attentati, e quando l’assalto all’arma bianca contro il laboratorio si compie, il risultato, come dimostra questo esempio, è la perdita di anni di ricerche, magari contro malattie gravi e incurabili (oltre che, naturalmente, la morte precoce di tutte le cavie ‘liberate’). Non solo i nostri ricercatori fanno la fame a causa del loro stipendio quasi simbolico: devono anche subire la furia di questi nazisti travestiti da difensori dei più deboli.
La violenza verbale e fisica degli anti-vivisettori è salita alla ribalta delle cronache nazionali qualche tempo fa, quando a essere vittima della loro insipienza è stata la grande Caterina Simonsen, ragazza bolognese colpita da ben quattro malattie rare e ancora viva proprio grazie alla sperimentazione animale. Caterina ha avuto l’ardire di pubblicare sul suo profilo Facebook la foto che vedete qui sotto: il risultato sono stati centinaia di insulti e minacce di morte da parte di insospettabili, tutti vittime inconsapevoli della propaganda nazistoide effettuata dalla LAV e dalle associazioni similari. Propaganda che sta avendo un risultato incredibile: seminare odio verso chi cura i malati e verso i malati che hanno la terribile colpa di essere ancora in vita.
Un paradosso come questo ha se non altro il merito di mostrare con grande evidenza quanto sia facile essere vittime del ricatto emotivo. L’immagine di un paffuto agnellino, o magari di un simpatico topolino, fa scattare dentro tanti di noi una sensazione di immediata empatia. È il risultato di decenni di cultura pop di stampo disneyano: d’altro canto, nessuna associazione animalista si è mai battuta contro l’estinzione di un verme o di una mosca, e la LAV non ha mai mosso un dito contro (per dire) le violente campagne di derattizzazione messe in atto in tante nostre città. Tutto ruota attorno al gradiente Disney: se supera una certa quota, devi essere salvato, altrimenti puoi pure morire tra atroci sofferenze.
Ma a mio avviso, in realtà, c’è di più: l’animalismo non è altro che una delle malattie senili del benessere. Molti esseri umani hanno una fortissima tensione interiore che li porta a impegnarsi in prima persona in battaglie dal forte spessore etico. In una società povera e bellicosa, la tensione interiore è assorbita dalle necessità della sopravvivenza. In una società ricca e benestante, invece, occorre quotidianamente inventarsi una qualche direzione verso cui spingere la nostra fame di militanza. Il problema è che una militanza vera e autentica, che abbia a cuore l’avanzamento della società, deve affiancare alla ‘semplice’ tensione interiore lo studio e la ricerca. Se si ha fame di militanza ma non si hanno gli strumenti per indirizzarla in modo sensato, si cade vittima del ricatto emotivo. Questo, secondo me, è ciò che spiega il proliferare di seguaci dell’animalismo, dell’ambientalismo estremista, delle medicine alternative, delle pseudoscienze (oltre che, naturalmente, delle religioni). Quel che deve essere chiaro è che a un avanzamento di questi fronti non può che corrispondere un arretramento della scienza, e quindi del benessere stesso. Animalismo fa rima con oscurantismo. È facile riconoscere l’oscurantismo quando si nasconde sotto il cipiglio della Binetti, più difficile quando si nasconde dietro lo sguardo svenevole di un puccioso agnellino. Teniamo alta l’attenzione, o ingenui raziocinanti!
Per chi volesse approfondire:
Resistenza Razionale – In difesa della sperimentazione animale
Pro-Test Italia
Category Scienza | Tags:
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