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SOS sinistra, atto IV: RAPPRESENTANZA!

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March 14, 2017 by Mosè Viero

Secondo la teoria politica classica, l’elettore può esprimersi, in sede di consultazione, secondo due tipologie di voto: il voto di appartenenza e il voto di opinione. Il primo è concretizzazione suprema del principio di rappresentanza: appartengo a una determinata classe sociale, e voto lo schieramento che meglio rappresenta le istanze della mia parte. Il secondo è conseguenza dell’azione, concretamente politica o anche solo mediatica, degli schieramenti in campo: una certa presa di posizione o un determinato impegno politico mi colpiscono positivamente, quindi voto chi se ne è fatto portatore. Filosoficamente, potremmo dire che il voto di appartenenza è a priori, mentre il voto di opinione è a posteriori.

Il panorama politico novecentesco era dominato dal voto di appartenenza: sono operaio, voto comunista; sono imprenditore o libero professionista, voto democristiano. L’azione concreta delle forze politiche non aveva, all’epoca, un ruolo preminente: a contare era anzitutto la rappresentanza, nella tipica logica degli schieramenti ben configurata, a livello mondiale, dalle vicende della Guerra Fredda. Il voto di opinione esisteva, ma era appannaggio di una elite di cittadini individualisti e contrari all’omologazione senza se e senza ma: un buon esempio di partito piccolo ma significativo alimentato esclusivamente dal voto di opinione era, a quel tempo, il Partito Radicale.

Nella cosiddetta Seconda Repubblica la situazione si è fatta più fluida, e non mancano voci autorevoli secondo cui il voto di appartenenza sarebbe scomparso del tutto o quasi. Gli esempi classici portati a sostegno di questa tesi sono noti e usurati. Primo esempio tipico: gli operai, e in generale le classi più svantaggiate, tendono a votare in prevalenza a destra, segno che non si riconoscono in una appartenenza di classe. Secondo esempio tipico: gli schieramenti sono assai più ‘liquidi’ che in passato, e uno stesso partito può passare dal 20 al 40 per cento nell’arco di pochi mesi, segno che gli elettori decidono che cosa votare in base alle contingenze del momento.

A mio avviso, però, le cose non stanno esattamente così: il voto di appartenenza esiste ancora e ha ancora un ruolo importante, solo che la rappresentanza si è spostata dalla classe a un più generico mondo dei valori. Non voto a sinistra perché appartengo al proletariato, ma perché la sinistra rappresenta il mio modo di vedere il mondo: perché, per esempio, sono per i diritti civili, per lo smussamento delle disuguaglianze, per la solidarietà. Viceversa, voto a destra non perché sono imprenditore o commerciante, ma perché voglio più sicurezza e meno immigrazione, o più libero mercato e meno statalismo.

Certo, il voto di opinione ha sicuramente più peso che in passato, tanto che i partiti che se ne alimentano si sono moltiplicati e hanno assunto una rilevanza non trascurabile. È significativo, però, che quasi tutti questi partiti possano facilmente essere collocati, se si ragiona nei termini della logica tradizionale, verso la parte destra dello scacchiere. La Lega Nord è nata come partito d’opinione, basato su un programma politico contingente e in apparenza slegato dalla ‘classe’: ma è diventata fin da subito stampella del lo schieramento conservatore, e ora è l’incarnazione italiana della destra estrema lepenista. La stessa Forza Italia muoveva i primi passi secondo istanze apparentemente post-ideologiche, tanto da attrarre a sé una buona parte del mondo radicale: ma nello spazio di un mattino la compagine berlusconiana si è dimostrata come la perfetta incarnazione della destra più ottusa e bigotta. In tempi più vicini, il Movimento Cinque Stelle si auto-rappresenta come la quintessenza del partito d’opinione post-ideologico: ma le sue prese di posizione, tematiche o di alleanza, per non parlare dei suoi metodi, rimandano chiaramente alla destra anche estrema.

Il partito d’opinione sembrerebbe, dunque, tendenzialmente conservatore. Come mai? La risposta a questa domanda secondo me è abbastanza ovvia: dato che la maggior parte della cittadinanza non ha tempo, voglia o competenze per occuparsi di politica approfonditamente, se sceglie un partito per motivi contingenti e non per vicinanza con un sedimentato sistema di valori è chiaro che sceglierà il partito che dà le soluzioni più semplici. E le soluzioni semplici sono per loro stessa natura reazionarie.

È per questo che, come abbiamo scritto più volte io e tanti altri autorevoli commentatori, dire “non siamo di destra né di sinistra” è un tipico argomento di destra: perché la sinistra non può fare a meno della rappresentanza. In altri termini: un partito di destra può rinunciare tranquillamente al voto sedimentato e accalappiare voti sulla base degli slogan accattivanti del momento: via gli immigrati, giù le tasse, via i vitalizi per i politici, eccetera. Ma questo meccanismo per un partito di sinistra non può funzionare, neanche se si utilizzano slogan opposti. Infatti a nessuno verrebbe in mente di urlare in campagna elettorale “viva le tasse ché redistribuiscono il reddito” oppure “viva gli immigrati ché ce ne servono di più sennò l’economia va a rotoli”: si tratta di due lapalissiane verità, ma non funzionano come slogan, perché per comprenderle occorre un ragionamento complesso, che presuppone l’esistenza, appunto, di un sistema di valori.

Se il renzismo ha poca presa su un certo elettorato di sinistra, è precisamente per questo motivo: per il suo deficit a livello di rappresentanza. È vero che il governo Renzi e in generale la Legislatura che sta per concludersi hanno grandi meriti dal punto di vista della politica concreta: basti pensare alla Legge n. 76/2016 (sulle Unioni Civili, la cosiddetta “Cirinnà”) o alla Legge n. 112/2016 (sull’autonomia delle persone con disabilità grave, la cosiddetta “Dopo di noi”) o, per quel riguarda l’ambito dell’economia e del lavoro, alla Legge n. 199/2016 (la cosiddetta legge sul “caporalato”). Le azioni di quel governo, anche tenendo presenti quelle opinabili (basti pensare alle criticità del cosiddetto “Jobs Act”), dovrebbero essere più che sufficienti per garantirsi il sostegno dell’elettorato di sinistra, soprattutto tenendo presenti le alternative. Se questo sostegno sembra talvolta mancare, e se su questo problema è avvenuta addirittura una scissione (che peraltro sembra dovuta soprattutto alla probabile legge elettorale proporzionale che ci riporterà alle urne), non è a causa del voto a posteriori, ma a causa del voto a priori. Detto altrimenti: tante persone di sinistra non votano per il PD non per quel che ha o non ha fatto, ma perché non si sentono rappresentate dal PD. È anche una questione semplicemente estetica. D’Alema e Bersani, per esempio, non hanno certo lasciato in eredità riforme spiccatamente di sinistra e, rispetto a Renzi, sono stati anche assai più conniventi con Berlusconi: eppure un certo elettorato di sinistra li riconosce come più di sinistra. Per il loro aspetto più serio e compassato, per il loro indulgere al ragionamento complesso, per la loro apparente allergia agli slogan di facile presa.

Intendiamoci: non è un qualcosa di cui andare troppo fieri. Da sempre, la razionalità sta più nell’a posteriori che nell’a priori. Un buon elettore dovrebbe basare le sue scelte anzitutto sui risultati, e io personalmente inorridisco quando sento qualcuno che si dice di sinistra ma che disprezza i risultati del governo Renzi perché non sarebbero abbastanza di sinistra. Ma bisogna riconoscere che questo disprezzo si radica anzitutto, per l’appunto, nella mancata capacità del PD di dare rappresentanza alla sinistra, cioè di incarnare il suo sistema di valori. È un po’ paradossale, ma l’elettore-tipo di sinistra è al contempo saggio, perché portatore di un universo etico e morale profondo e complesso, e stupido, perché stenta a riconoscere quello stesso universo quando esso si presenta slegato dall’idea.

Non mancano autorevoli opinionisti secondo cui questo è un problema esclusivamente dell’elettorato: se sei di sinistra e agisci contro il PD, sei semplicemente uno sprovveduto che fiancheggia il populismo fascistoide. Può essere. Ma non mi abbandona il pensiero che semplificare le istanze progressiste fino a farle diventare uno slogan significhi in qualche modo snaturarle del tutto, e che nessuna brillante comunicazione mediatica fatta per attirare i voti ‘ballerini’ possa al tempo stesso appagare i voti ‘sedimentati’, dati per appartenenza più che per opinione. Forse il leader della sinistra del futuro dovrà lavorare anzitutto proprio su questo, su come unire fecondamente questi due approcci al voto e dunque alla politica, apparentemente così lontani.


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