Siamo refrattari alle nuove regole. È drammatico, ma è bellissimo
0March 19, 2020 by Mosè Viero
Nei bei tempi andati in cui avevo un lavoro e facevo dei tour, mi capitava spesso di soffermarmi su un concetto chiave nel comprendere la peculiarità della Repubblica di Venezia rispetto agli altri Stati dell’ancient regime. Pur non essendo in alcun modo paragonabile agli Stati moderni, la Serenissima aveva un sistema decisionale caratterizzato da notevole condivisione, almeno se confrontato con quel che succedeva nella maggior parte dei Paesi di quelle epoche. La questione è molto complessa, ma potremmo sintetizzarla in questo modo. L’economia quasi esclusivamente basata sul commercio metteva al centro del sistema di potere la ricchezza ‘mobile’ rappresentata dal denaro, decisamente più importante, nella Serenissima, della ‘immobile’ rendita dovuta al possesso di latifondi. Questo rendeva ‘mobile’, a sua volta, la stessa organizzazione sociale: le famiglie più ricche cambiavano continuamente, perché volatile e aleatorio è, per sua natura, il potere basato su guadagno rispetto a quello basato sulla rendita. L’effetto sul sistema politico fu la nascita di quella particolare “repubblica aristocratica” che tutti conosciamo: un sistema collegiale perfetto per ‘registrare’ costantemente i veloci cambiamenti dell’organizzazione sociale.
Oggi tendiamo a giudicare quel sistema positivamente, perché lo paragoniamo alle monarchie e alle signorie che lo circondavano, obiettivamente più ‘primitive’. Ma spesso preferiamo dimenticare i problemi che alla collegialità sempre si accompagnano, e che emergono con evidenza anche durante la storia della Serenissima. Nei sistemi assolutistici, le decisioni possono essere prese con rapidità: e se i responsabili delle decisioni sono intelligenti e saggi, i risultati non tarderanno ad arrivare. Nei sistemi collegiali, c’è più possibilità di coinvolgere qualcuno di intelligente e saggio: ma le procedure saranno necessariamente più lente e farraginose. E la Storia insegna che spesso è inutile avere ragione se non si ha la sufficiente rapidità d’azione.
Trasferiamo il ragionamento al tempo presente. In questo clima pesante segnato dalla battaglia contro il COVID19, è sempre più frequente leggere indignate lamentele verso chi non segue scrupolosamente le indicazioni delle autorità, che prevedono una sorta di auto-segregazione in casa per un lasso di tempo per il momento indefinito (ufficialmente è ancora fino al 25 marzo, ma è palese che la situazione continuerà molto più a lungo). La contingenza fa emergere il nostro lato peggiore: persone che ricordavamo come aperte e disincantate si trasformano sotto i nostri occhi in implacabili tutori dell’ordine, che invocano misure ancora più draconiane e sognano strade pattugliate da militari in divisa. A pensarci bene, è il momento ideale per chi conduce da sempre una vita insoddisfacente e sogna di poter sfogare liberamente la propria invidia sociale: ora è lo Stato che ti obbliga a fare una vita orribile, in una sorta di “comunismo della miseria umana” che ci spinge tutti verso il basso.
Intendiamoci: le misure prese dall’autorità sono pienamente giustificate, almeno per il momento. Ma sorprendersi per il fatto che sia difficile farle rispettare è quanto meno ingenuo. Viviamo in una democrazia liberale. In condizioni normali, c’è piena libertà di movimento e di riunione, e l’autorità può limitare queste libertà solo in condizioni molto particolari. Pensare che dall’oggi al domani tutti riescano a cambiare radicalmente il proprio stile di vita solo perché l’ha ordinato il Governo è, ribadisco, quanto meno ingenuo.
Perché nessuno ha *paura* del nostro Governo. E questa è una fortuna incredibile, che in questo momento in molti faticano ad apprezzare. La Cina è uno Stato totalitario: là non solo le abitudini sociali non sono mai state ‘libere’ come lo sono da noi, ma c’è il terrore dell’azione coercitiva dell’autorità, che quindi ha vita molto semplice nell’imporre il proprio volere. Molti hanno una sorta di ammirazione per il totalitarismo, proprio perché sembra avere una straordinaria efficienza: pensiamo a tutti i fan della Russia di Putin. Succedeva lo stesso al tempo della Repubblica di Venezia: tra la nobiltà vicentina, per esempio, si sprecavano i cospiratori che avrebbero sostituito molto volentieri la Serenissima con il dominio imperiale asburgico, molto più veloce ed efficiente nel prendere le decisioni. E se nel presente ci sono tra di noi ammiratori del totalitarismo anche in situazioni di normalità, figuriamoci in un momento come questo, nel quale l’efficienza può fare la differenza tra la vita e la morte.
Ma è proprio per questo che dobbiamo fare molta attenzione a quello che vogliamo. È davvero il momento in cui occorre riflettere su cosa significa essere una democrazia liberale. Soprattutto, sui *rischi* che comporta l’essere una democrazia liberale, vale a dire una società aperta, mobile, contaminata. Un rischio che molti hanno messo a fuoco, per esempio, è il “paradosso della tolleranza” di popperiana memoria: siccome dobbiamo difendere sempre la libertà di espressione, dobbiamo difenderla anche per gli antidemocratici? Queste giornate stanno facendo emergere un altro paradosso: se non vogliamo uno Stato violento e coercitivo, come possiamo sperare che le regole vengano seguite?
Il punto centrale, appunto, è che essere una società libera e aperta comporta dei rischi. In questo momento stiamo vedendo che questi rischi possono prendere forme quasi apocalittiche: mai come nel futuro prossimo i nemici della democrazia e i fan del totalitarismo rialzeranno la testa. Cerchiamo di mantenere la giusta prospettiva sulle cose, o finiremo col rimpiangere questi giorni di segregazione quasi volontaria.
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