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Si può vivere a Venezia ed essere cittadini del mondo?

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June 16, 2017 by Mosè Viero

Qualche giorno fa, Raiuno ha trasmesso Stanotte a Venezia, serata speciale condotta da quel sant’uomo di Alberto Angela e dedicata, com’è intuibile, agli splendori della città lagunare. Il programma ha avuto un notevole successo di pubblico e ha ricevuto innumerevoli parole di elogio, ma anche qualche sommessa critica. Il racconto è risultato forse eccessivamente frammentato, e Albertone si è concesso qua e là qualche svarione storico non da poco.

[Forse il peggiore è aver affermato che l’ascesa di Venezia comincia con la scoperta dell’America. WHAT? Semmai è il contrario: da lì comincia il declino].

Comunque, non va mai dimenticato che ci troviamo di fronte a un prodotto televisivo destinato alla prima serata e quindi necessariamente calibrato sull’attention span di un pubblico generico, desideroso d’evasione più che di impegno.

Qualcuno si è anche lamentato del fatto che il programma non ha dedicato alcuno spazio alle problematiche legate all’attualità veneziana, come ad esempio le conseguenze negative del sovrasfruttamento turistico. Ma questa secondo me è una critica ingenerosa: la trasmissione aveva un format molto chiaro, incentrato sull’illustrazione delle bellezze storiche e artistiche della città, e inserirci dentro riferimenti al dibattito politico attuale avrebbe in qualche modo ‘sporcato’ il quadro d’insieme.

Certo, i pochi residenti rimasti a Venezia sono comprensibilmente ossessionati dalle numerose criticità che l’insediamento sta attraversando negli ultimi decenni, e quindi non perdono occasione per ribadire la propria preoccupazione riguardo le sorti della fu Serenissima. I miei contatti veneziani sui social network sembrano non parlare d’altro: il sovraffollamento turistico, la perdita di residenzialità, la scomparsa degli antichi mestieri, le minacce ambientali. Tutte questioni importantissime e sacrosante, sulle quali è semplice convenire se si desidera, per questa città, un avvenire diverso dall’essere una patetica Disneyland per turisti, peraltro a rischio fisico di sopravvivenza.

Però, c’è un però. La volontà di difendere con le unghie e con i denti la perdita di identità da parte della città e dei suoi abitanti porta talvolta i Veneziani verso posizioni esageratamente ‘passatiste’, che prendono le forme di un iper-localismo, totalmente refrattario a qualunque evoluzione e pervicacemente ripiegato su se stesso. Leggete quel che scrive il remèr Saverio Pastor, uno dei pasdaran della difesa della città:

Il remèr si concentra giustamente sul suo settore ed è dispiaciuto per la perdita di appeal che la voga alla veneta sembra subire tra le nuove generazioni. E qual è la soluzione proposta? Difendere la tradizione in declino tramite leggi, obblighi e divieti: si favoriscano gli ormeggi delle barche a remi, si finanzino i cantieri tradizionali, si renda la voga materia obbligatoria (!)

I commenti dei Veneziani sotto a interventi di questo tipo sono sempre entusiastici. Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe se davvero si rendesse obbligatoria la voga per tutti i cittadini o anche solo per tutti i ragazzi in età scolare: qualcosa mi dice che gli entusiasmi scemerebbero un po’.

Quando leggo questi rigurgiti di orgoglioso sentimento reazionario e di localismo estremo, spesso sostenuti anche da sedicenti progressisti, non posso fare a meno di pensare al fatto che il mio stile di vita non è mai cambiato granché con il cambiare della mia residenza. Ovvio, ci si adatta al contesto: ma mai fino al punto di cambiare completamente la propria identità. Se col cambiare del contesto cambia completamente la propria identità, vuol dire che quest’ultima è ben fragile, per non dire inconsistente.

Io sono sempre lo stesso, che mi trovi a Venezia, a Vicenza o dovunque altro ho vissuto. E anche le mie passioni restano sempre le stesse: la musica leggera, i videogiochi, i giochi da tavolo, i mattoncini Lego. Non è che se vado a vivere a Courmayeur divento improvvisamente appassionato di sci, così come non è che se mi trasferisco a Bologna divento esperto di tortellini. Mi spiace per Saverio Pastor e per chi fa il suo lavoro, ma a me della voga alla veneta non me ne può fregare di meno e se il mio sentimento è condiviso silenziosamente da tanti altri autoctoni forse vuol dire che il tempo della voga alla veneta sta per finire. Lo so, è molto triste. Anzi, forse è perfino drammatico. Ma non saranno certo gli obblighi di legge a fermare il cambiamento.

Perché, notiziona, il mondo cambia. Se a suo tempo la Repubblica di Venezia crollò miseramente, fu proprio perché non seppe riconoscere e gestire le trasformazioni del mondo al passaggio tra Antico Regime ed età contemporanea. Ora: è giustissimo lottare contro il sovra-sfruttamento turistico che sta devastando la città, ma se questa lotta prende le forme di un richiamo costante e continuo alle antiche tradizioni non credo si andrà tanto lontano. Le comunità sopravvivono se esistono in accordo col proprio tempo, con le sensibilità diffuse, con la contemporaneità. I Veneziani duri e puri di oggi stanno facendo lo stesso errore che fecero i nobilastri del tardo Settecento: pensare che la Serenissima potesse sopravvivere per sempre nella sua bolla di debole neutralità, senza badare alle vicende del mondo circostante e senza doversi aggiornare alla nuova società che stava allora nascendo. Mutatis mutandis, gli alfieri dell’identità locale vorrebbero questo: le grandi metropoli della contemporaneità si trasformano e si proiettano nel futuro, mentre noi rimaniamo qua a vogare, a soffiare vetro e a mangiare baccalà, in omnia saecula saeculorum.

Come spesso succede, l’equivoco ruota attorno all’ambiguo concetto di identità. Ciascuna comunità ha il suo stile di vita particolare e i suoi tratti caratterizzanti, e non c’è niente di male nell’andare fieri di esserne parte: ma l’identità è un qualcosa di utile e costruttivo solo se nasce spontaneamente. Se viene imposta per legge, o se ci si impunta nel volerla conservare anche quando sta chiaramente cambiando, l’identità diventa strumento di coercizione reazionaria e soprattutto blocco delle spinte evolutive. Anzi: l’identità imposta per legge è il viatico perfetto per l’impoverimento culturale e spirituale della comunità. Il motivo è presto detto: i primi ad adeguarsi alle imposizioni saranno i cittadini dall’identità più labile, e i primi a scappare saranno quelli dall’identità più forte.

Io voglio vivere a Venezia e credo di amare molto questa città: ma il mio modo di amarla è sperare che diventi una città un po’ più simile a tutte le altre. Questa città sopravviverà solo se ci si potrà vivere in modo normale, senza che chi capita qui senta l’obbligo morale di doversi adeguare ad abusati stereotipi, che peraltro vengono criticati a giorni alterni anche dai localisti duri e puri. Non mi interessa vogare né andare in barca, odio il carnevale e le maschere, la sola idea di aspettare per ore dei fuochi artificiali in una barchetta dando confidenza a degli sconosciuti mi mette l’orticaria e mi viene da ridere fragorosamente in faccia a chi il 25 aprile gira avvolto nella bandiera di San Marco. Eppure voglio vivere qui e non mi sento meno titolato a farlo di chi è nella posizione opposta alla mia. A chi lotta per salvare la residenzialità vorrei chiedere: volete attirare in Laguna dei cittadini del mondo o solo chi è disposto a recitare la parte del Veneziano da cliché? Siamo davvero convinti che sbandierare continuamente gli stereotipi locali sia un buon sistema per vincere una battaglia così complessa e così globalmente interconnessa?


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