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Referendum costituzionale: dichiarazione di voto

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November 23, 2016 by Mosè Viero

Il 4 dicembre saremo chiamati a votare sì o no alla proposta di riforma costituzionale votata lo scorso 16 aprile alla Camera e fortemente sostenuta da uno schieramento eterogeneo ma più o meno coincidente con il Governo attualmente in carica, presieduto da Matteo Renzi. Il tema su cui ci si dovrà esprimere è complesso e sfaccettato, e da quel che si legge e si sente in giro risulta del tutto evidente che gran parte dei votanti agirà sulla base di valutazioni istintive e pregiudiziali, com’è peraltro scontato e naturale quando si chiede al ‘popolo’ di prendere posizione su questioni squisitamente tecniche.

costituzione

Anticipo fin da subito che voterò SÌ, quindi quelli che pensano che chi non vota NO sia un “servo della Ka$ta” o un “pidiota” possono subito chiudere la pagina e tornare a guardare gattini su Facebook. Quel che cercherò di fare, per chi avrà voglia di seguirmi in questo lungo articolo, è analizzare ciascun punto della proposta di riforma con particolare attenzione verso le questioni più controverse: per ogni punto smonterò le ragioni del NO pretestuose e metterò invece in evidenza le criticità reali, per concludere con una riflessione di carattere più generale sulle conseguenze a lungo termine di questa consultazione elettorale.

Prima, però, sgombriamo subito il campo dalle argomentazioni del fronte del NO più generali, che sono anche le più ignoranti e stucchevoli.
1. Il Parlamento attualmente in carica è “politicamente illegittimo” in quanto eletto col cosiddetto Porcellum, sistema elettorale che la Corte Costituzionale ha tacciato di incostituzionalità, e il presidente del Consiglio non è mai stato eletto: quindi questa brutta gente non può toccare la Costituzione.
Come diciamo noi politologi, queste sono tutte stronzate, e rivelano una ignoranza in materia legislativa e costituzionale da far rizzare i peli sulla schiena. È vero che il Porcellum è stato dichiarato incostituzionale, ma la stessa Corte che l’ha dichiarato tale ha anche affermato che il Parlamento in carica ha comunque ogni legittimità per operare. Il Presidente del Consiglio, fortunatamente, non è *mai* stato eletto dal popolo, perché la nostra Costituzione non lo prevede. Andate a studiare e restituite la vostra tessera elettorale, se avete un minimo di dignità.
2. Non possiamo trasformare Renzi, la Boschi e Verdini nei “nuovi costituenti”.
Gli argomenti ad personam sono sempre deboli, ma questo oltre che debole è anche insensato. La Costituzione viene modificata costantemente dal giorno in cui è stata approvata: chiunque l’ha toccata è un “nuovo costituente”?
3. La riforma è un’arma di distrazione e sta bloccando la politica, che dovrebbe risolvere i veri problemi degli italiani: il lavoro, la salute, la sicurezza.
Il benaltrismo è un argomento tipicamente reazionario se non fascista, e spiace quando viene fatto proprio da esponenti della sinistra. La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato e la sua natura si riverbera su tutto il resto, inclusi il lavoro, la salute e la sicurezza. Ogni momento è buono per cercare di migliorarne il funzionamento.
4. Il taglio che la riforma fa dei costi della politica è risibile e quasi ininfluente per le casse dello Stato.
A parte che un po’ di risparmio dovrebbe essere meglio di nessun risparmio, gli argomenti che ruotano attorno ai costi della politica rappresentano la quintessenza del populismo reazionario e quindi non meritano il minimo interesse. Se i costi della politica vi preoccupano così tanto, promuovete il ritorno alla monarchia assoluta: niente elezioni, niente Parlamento, niente Commissioni, vuoi mettere il risparmio?

referendum

Passiamo ad analizzare il progetto di riforma. Quattro sono i punti centrali in cui si articola: il superamento del bicameralismo paritario, la nuova organizzazione del rapporto Stato-Regioni, l’abolizione del CNEL e la riorganizzazione degli strumenti di partecipazione popolare.

Punto primo: il superamento del bicameralismo paritario

Nella Costituzione vigente, Camera e Senato hanno funzioni pressoché identiche e ciascuna legge deve essere approvata nella stessa forma da entrambe le Camere affinché possa essere promulgata. Nel nuovo Parlamento proposto dai sostenitori della riforma il procedimento legislativo spetterà, per quasi tutti gli ambiti, alla sola Camera dei Deputati, che resterà il solo organo parlamentare eletto a suffragio universale diretto. Il Senato continuerà a esistere, ma cambierà natura e funzioni: sarà molto più piccolo (i suoi membri passeranno dagli attuali 315 a 95), non sarà eletto direttamente ma sarà frutto di una elezione di secondo livello e sarà composto da Sindaci e Consiglieri Regionali che potranno occuparsi, in veste di Senatori, solo di determinati ambiti, principalmente relativi al rapporto tra lo Stato e i territori. L’idea generale, dunque, è trasformare il Senato in una sorta di “Camera delle autonomie locali”, sulla scorta di quanto avviene in vari altri Paesi europei, dalla Germania alla Francia all’Austria.

Ragioni del NO pretestuose e insensate
1. Non eleggeremo più il Senato, che diventerà un organo di “nominati” dalla casta, per giunta scelto tra i politici più screditati, i Consiglieri Regionali.
Questo argomento è il pezzo forte di parecchi pasdaran del NO, per esempio di Marco Travaglio (“Non ci danno più la scheda per il Senatooooh!”) In realtà dire che il Senato non sarà più un organo rappresentativo dei cittadini è *falso*: semplicemente, passa dall’essere risultato di un’elezione di primo livello all’essere risultato di un’elezione di secondo livello. Il Presidente della Repubblica è anch’egli risultato di un’elezione di secondo livello, ma questo non lo rende meno rappresentativo del popolo da cui promana. Anzi, l’idea che i cittadini eleggano dei rappresentanti che poi a loro volta scelgono i propri primi è l’essenza stessa della democrazia rappresentativa.
Nella fattispecie, poi, il comma 5 dell’articolo 57 della nuova Costituzione stabilisce che i Senatori saranno eletti “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione delle elezioni dei consigli regionali o delle province autonome, secondo le modalità stabilite dalla nuova legge elettorale del Senato”. In altri termini, quando si scelgono i Senatori si deve tener conto delle scelte espresse dagli elettori: le modalità andranno stabilite dopo l’approvazione della riforma, perché non si può legiferare su un Senato che non esiste. Ma si *dovrà* tener conto della scelta degli elettori, perché è scritto dentro la nuova Costituzione.
Quanto al fatto che i Consiglieri Regionali sarebbero la classe politica più screditata, a parte che è una generalizzazione populista e quindi fascistoide, sarebbe bastato eleggerne di migliori. Non si capisce perché gli stessi elettori che toppano clamorosamente quando eleggono i Consiglieri Regionali dovrebbero far meglio quando eleggono il Senato. Se i nostri politici fanno spesso schifo, è perché fa spesso schifo chi li ha eletti: nessuna riforma costituzionale potrà mai risolvere questo problema.
2. I nuovi Senatori avranno un doppio lavoro e quindi non riusciranno a fare bene nessuno dei due.
Questo argomento ignora completamente il funzionamento attuale del nostro sistema politico. Già adesso i Consiglieri Regionali e i Sindaci delle più importanti città sono spesso a Roma per confrontarsi col Governo su tematiche relative al rapporto tra i poteri dello Stato: la riforma in un certo senso istituzionalizza una prassi già in atto. Tutto starà nell’organizzare i lavori del nuovo Senato con un minimo di buon senso, magari concentrandoli solo in un giorno della settimana o in alcuni giorni al mese.
3. I nuovi Senatori avranno l’immunità, quindi la riforma è un modo subdolo per salvare dai processi i Consiglieri Regionali che hanno guai con la giustizia.
L’immunità parlamentare, quando limitata all’esercizio delle funzioni, è sacrosanta ed esiste in ogni Paese civile. Si può discutere di suoi eventuali abusi, ovviamente. Ma non si capisce perché chi ne contesta l’esistenza debba boicottare la riforma, visto che se viene approvata i Senatori protetti da immunità passano da 315 a 95.
4. Il nostro procedimento legislativo non è lento per via del bicameralismo, è lento perché i nostri politici non riescono a mettersi d’accordo: infatti sulle leggi che convengono a loro sono sempre velocissimi.
Questa è una bufala, basata su un ragionamento fallace. Quelle che vengono chiamate “leggi” che sono state approvate in tempi rapidissimi non erano in realtà “leggi” bensì Decreti Legge: l’unica eccezione è il cosiddetto “Lodo Alfano”, che in effetti era legge ordinaria e che fu approvata in tempi rapidissimi (poi è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta, ndr). Se la proposta di riforma costituzionale ha un merito, è proprio quello di cercare di superare la decretazione d’urgenza, che è la morte del parlamentarismo. Il Decreto Legge è, in sostanza, un aut aut del Governo: se sei con me, approvami questa Legge. Finora, la decretazione, magari condita con la cosiddetta fiducia, è stata quasi l’unico modo per approvare nuove Leggi in tempi rapidi: ma questo è il segno evidente che il bicameralismo paritario finora *non ha funzionato*, perché la funzione legislativa spetta al Parlamento, non al Governo. Se l’intervento del Governo è l’unico modo per promulgare una Legge in tempi rapidi, vuol dire che il sistema non funziona: d’altro canto, questo era un dubbio che avevano gli stessi padri costituenti. La riforma rappresenterebbe, da questo punto di vista, un buon passo in avanti: la legislazione compete alla Camera, e il ricorso alla decretazione d’urgenza viene limitato grazie alla clausola che impedisce di inserire in Decreti Legge disposizioni che non c’entrano con “l’oggetto o la finalità” del Decreto (niente più Finanziarie con dentro di tutto e di più). Per compensare la limitazione della decretazione, viene introdotto un molto più civile “voto a data certa”: il Governo può chiedere alla Camera di deliberare che un Disegno di Legge venga discusso con priorità, entro massimo settanta giorni dalla richiesta. Chiunque abbia perplessità sui mega-decreti e in generale sull’abuso di potere da parte del Governo sul Parlamento dovrebbe accogliere queste novità con soddisfazione. E tutto questo dovrebbe anche smentire chi diffonde un’altra bufala: che questa riforma sia assimilabile a quella portata avanti da Berlusconi nel 2006 e bocciata dal referendum. I due progetti di riforma vanno in realtà in direzione opposta: quella voleva rinforzare il Governo a scapito del Parlamento, questa vuole rinforzare il Parlamento a scapito del Governo.

Criticità
Si sa con certezza che il nuovo Senato sarà composto da 74 Consiglieri Regionali e 21 Sindaci, ma le modalità con cui verranno scelti è ignota e la faccenda è più intricata di quel che dovrebbe essere. In generale, il nuovo Senato poteva e doveva essere ‘disegnato’ con chiarezza maggiore e forse anche con piglio riformista più radicale. Secondo alcuni autorevoli opinionisti (per esempio il filosofo ed ex Sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che pure sosterrà la riforma in sede di voto), il Senato doveva essere abolito completamente. Volendolo trasformare in “Camera delle Autonomie”, lo si doveva fare con maggior linearità. La presenza al suo interno di Consiglieri Regionali è senza dubbio abnorme: lo stesso Matteo Renzi afferma che avrebbe preferito metterci più Sindaci. Io, da osservatore esterno e privo di esperienze dirette, ci avrei messo solamente i Sindaci delle grandi città e i Presidenti di tutte le Regioni, così da evitare anche tutti i problemi relativi alla sua elezione. Come dicevamo prima, l’elezione dei Senatori dovrà infatti tener conto delle scelte espresse dagli elettori in sede di voto: ma in alcuni casi, per esempio nelle Regioni che possono esprimere solo due Senatori, questo appare quasi impossibile.
Senza contare che i nuovi Senatori non dovranno necessariamente votare sulla base dei rappresentanti del territorio da cui provengono: saranno a tutti gli effetti dei Parlamentari senza vincolo di mandato, quindi c’è il fondato rischio che possano seguire più gli ordini del proprio capopartito che non le istanze della propria Regione. Il nuovo Senato non sarà dunque equiparabile, per esempio, al Bundesrat tedesco, nel quale i Länder votano come blocchi omogenei: sarà un insieme di Parlamentari che promanano dai territori, ciascuno dei quali potrà agire in piena autonomia.
La riforma stabilisce, tramite il famigerato articolo 70, le competenze del nuovo Senato: ma la situazione è anche in questo caso lungi dall’essere chiara. In alcuni casi, il procedimento bicamerale resta identico a com’è ora; in tutti gli altri casi, la legislazione spetta alla sola Camera. Purtuttavia, la nuova Costituzione prevede che la Camera invii ogni nuova legge al Senato, che entro dieci giorni può chiedere di partecipare al procedimento legislativo tramite richiesta di un terzo dei suoi componenti. Se questa funzione viene abusata, il nuovo Senato si troverà a comportarsi esattamente come quello attuale, vanificando del tutto gli scopi della riforma. Questo punto andava senza dubbio pensato meglio, togliendolo del tutto o limitando assai più decisamente la possibilità della sua concretizzazione.
Infine: la nuova Costituzione prevede che in Senato siedano anche cinque Senatori nominati dal Presidente della Repubblica per alti meriti. Anche se restano in carica per sette anni, sono un po’ il corrispettivo degli attuali Senatori a vita. Ma la loro presenza in quella che si suppone essere una Camera delle Autonomie aumenta ancora di più la confusione: che territori dovrebbero rappresentare, esattamente, questi cinque Senatori? Non sarebbe stato assai più logico metterli alla Camera anziché al Senato?
E poi: per essere eletti alla Camera si dovrà avere almeno venticinque anni, mentre per il Senato ogni limite di età è stato abolito. Ma non è paradossale che in un *Senato* si possa entrare a diciotto anni? Non sarebbe stato il caso di cambiare anche il nome a questo nuovo organo legislativo?

Punto secondo: la nuova organizzazione del rapporto Stato-Regioni

Nel 2001 il Governo Amato II approvò una dissennata riforma costituzionale che assecondava la crescente popolarità della sensibilità federalista: la riforma, alla quale i giornalisti si riferiscono col nome di “Titolo Quinto”, suddivideva le competenze tra Stato e Regioni, assegnando a queste ultime un ruolo decisamente abnorme. Per di più, molte suddivisioni erano tutt’altro che chiare, e questo ha dato vita a innumerevoli conflitti dinanzi alla Corte Costituzionale. La riforma punta a superare questi problemi, muovendo in due direzioni: da un lato si ampliano gli ambiti di competenza esclusiva dello Stato (energia, previdenza, tutela e sicurezza del lavoro, commercio estero, coordinamento della finanza pubblica, sistema tributario, protezione civile, ricerca scientifica e tecnologica, sicurezza alimentare, politiche sociali, turismo); dall’altra si mette in campo, per quel che riguarda gli ambiti di competenza regionale o condivisa, la possibilità per lo Stato di attivare la cosiddetta Clausola di supremazia, che gli permetterà, previa approvazione da parte della Camera, di intervenire in qualunque ambito. L’idea è di evitare che su grandi operazioni di interesse nazionale lo Stato possa essere ‘bloccato’ da resistenze locali, e in generale che la comunità nazionale possa muoversi secondo modalità maggiormente coerenti, organizzate, razionali.

Ragioni del NO pretestuose e insensate
1. Lo Stato concentra i poteri su di sé, mettendo a tacere le comunità locali: diventerà molto più difficile, per esempio, opporsi a grandi opere inutili ed evitare la cementificazione selvaggia.
Questo argomento è efficace e in generale è comprensibile che la concentrazione di potere nelle mani dello Stato possa turbare chi crede nella cittadinanza attiva e partecipe, soprattutto se ci si riferisce ad aree svantaggiate o particolarmente bistrattate dal potere centrale (penso, per esempio, alla Sardegna). A queste obiezioni, però, si deve rispondere con decisione che il problema non si risolve con la moltiplicazione dei centri di potere. Per dirla in termini più corretti: le istituzioni di rappresentanza locale *non devono e non possono avere un ruolo di garanzia*. Le istituzioni di garanzia devono esistere e sono essenziali per una democrazia rappresentativa sana: ma il potere delle Regioni è governo locale, è potere *esecutivo*, non è potere di garanzia. La Regione non esiste per garantire che i miei diritti di cittadino non vengano calpestati: per quello esiste la Magistratura, la Corte Costituzionale e tutte le varie istituzioni di garanzia. La Regione esiste per governare il territorio, che è cosa ben diversa. Se diamo più potere alle Regioni nell’illusione che venga utilizzato per tutelare i diritti del cittadino calpestati dallo Stato, otteniamo l’effetto opposto: frantumiamo i centri di potere rendendone più difficoltoso il controllo e in generale più complessa (e dunque più aperta ad abusi) la gestione. Questo tema dovrebbe stare a cuore soprattutto a chi è di sinistra: il federalismo è l’antitesi della democrazia, perché dividendo la gestione del potere divide i cittadini e li rende, in ultima istanza, più vulnerabili. Senza contare che la frantumazione del potere rende più difficile l’organizzazione della comunità e anche l’emersione dei suoi talenti migliori. Chiunque faccia parte di una associazione lo sa benissimo: il novantanove per cento dei problemi interni di qualunque associazione deriva dalla frantumazione del potere al suo interno, per esempio sotto forma di circoli locali che bloccano iniziative della dirigenza nazionale o ne vanificano l’efficacia tramite linee politiche in contrapposizione l’una con l’altra. Per essere efficace e *realmente democratico*, il potere deve avere una gestione il più possibile accentrata: i suoi abusi vanno censurati non da piccoli poteri di serie B ma da serie istituzioni di garanzia. Ricordo ai miei amici progressisti che il buon Marx affermava che il problema non è solo la società divisa in classi, ma la società divisa in classi e Stati. Il vero progressista è sempre anti-federalista: come mai nessuno protesta contro lo scandalo di una Sanità a gestione regionale? Fosse per me le Regioni le abolirei del tutto: com’è possibile che abbiano in capo la gestione di un ambito cruciale come la Sanità e nessun progressista abbia niente da ridire?

Criticità
Diciamoci la verità: il vero problema della ri-riforma del Titolo Quinto è che sembra in contraddizione con il superamento del bicameralismo paritario. Se tolgo potere alle Regioni, diminuendone implicitamente l’importanza, perché dovrei allo stesso tempo creare una Camera delle Autonomie che dà potere sproporzionato proprio ai Consiglieri Regionali? Torniamo a quel che si diceva sopra: il Senato doveva essere abolito, oppure doveva prevedere al suo interno anzitutto Sindaci, così da rafforzare la dialettica Stato-Comune, mettendo in ombra i perniciosi sotto-governi territoriali, le Province e le Regioni. Queste contraddizioni interne danno forza a chi descrive la riforma come un’accozzaglia di cambiamenti poco pertinenti e poco organizzati. Se non altro, ogni riferimento alle Province viene tolto dal testo costituzionale, rendendo più semplice un’eventuale loro abolizione (vera) in futuro.

Punto terzo: l’abolizione del CNEL

Il CNEL è il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: è un organo di rilievo costituzionale che ha diritto all’iniziativa legislativa in materia economica e sociale. Si tratta in pratica di una sorta di appendice del Parlamento che dovrebbe consigliare le Camere e proporre leggi nelle sue materie di competenza. Dalla sua istituzione, il CNEL non ha particolarmente brillato per attivismo, tanto che i più lo considerano oggi un inutile carrozzone che costa denaro senza produrre alcunché di tangibile. Da qui l’idea di eliminarlo del tutto.

Questo è l’unico punto della riforma su cui anche il NO sembra convergere, quindi non è necessario approfondire più di tanto le posizioni contrapposte.

Punto quarto: la riorganizzazione degli strumenti di partecipazione popolare

Attualmente, è possibile chiedere che il Parlamento esamini leggi di iniziativa popolare presentandole corredate da 50 mila firme; il Parlamento, però, non ha nessun obbligo e quindi può riceverle e metterle in un cassetto. La riforma alza le firme richieste da 50 mila a 150 mila, ma obbliga la Camera a discuterle, in tempi che dovranno essere definiti dal nuovo regolamento parlamentare.
La riforma poi introduce nuovi referendum (propositivo e di indirizzo) la cui natura andrà anch’essa specificata da leggi ordinarie approvate successivamente. Per quanto riguarda il referendum abrogativo, c’è un’importante novità: se viene presentato corredato da 500 mila firme, rimane il quorum del 50+1 per cento; se invece viene presentato corredato da 800 mila firme, il quorum viene calcolato in base al numero dei votanti alle ultime elezioni, abbassandosi quindi di molto.

Ragioni del NO pretestuose e insensate
1. Con l’innalzamento delle firme richieste per le leggi di iniziativa popolare, si scoraggia la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica.
Magari! Ho già più volte avuto modo di spiegare che secondo me democrazia diretta e democrazia rappresentativa sono modalità opposte di concepire la gestione della cosa pubblica, e che ogni progressista dovrebbe stare dalla parte della democrazia rappresentativa. Fosse per me, le leggi di iniziativa popolare e i referendum andrebbero aboliti completamente, o almeno limitati nell’uso e nelle funzioni a casi eccezionali.

Criticità
Abbassare il quorum per il referendum abrogativo può potenzialmente portare a disastri, quindi questo punto della riforma mi lascia perplesso anzichenò. Senza contare che la modalità di passaggio dal quorum ‘normale’ a quello ribassato è insensata e irrazionale: se raccolgo più firme, come ‘premio’ ottengo un quorum più basso. Ma riusciranno a ottenere più firme le entità maggiormente organizzate, mentre riusciranno a raccoglierne meno le minoranze, che quindi si vedranno penalizzate in sede di consultazione.

Excursus: il problema del combinato disposto

Tecnicamente la legge elettorale non c’entra con la riforma costituzionale, perché si può cambiare con legge ordinaria. Molti autorevoli commentatori, però, hanno sottolineato che la legge attualmente vigente anche se mai sperimentata, il cosiddetto Italicum, darebbe vita, se affiancata alla riforma, a una pericolosa concentrazione di potere nelle mani del vincitore delle elezioni. L’Italicum assegna un premio di maggioranza di 340 seggi (il 54% dei seggi della Camera) alla lista che raggiunge il 40% dei voti; se nessuno raggiunge questa soglia, si effettua un doppio turno tra le prime due liste più votate, e il premio viene assegnato a chi vince il ballottaggio. In altri termini, chi vince le elezioni, al primo o al secondo turno poco importa, si porta a casa la maggioranza assoluta della Camera, l’unica assemblea in grado di legiferare. C’è da dire che i poteri di garanzia rimangono al riparo da colpi di maggioranza: il Presidente della Repubblica, per esempio, non sarà più eleggibile a maggioranza semplice neanche dopo molti scrutini; al massimo sarà eleggibile dai tre quinti dei votanti, quindi da 378 deputati. Purtuttavia, in molti vedono nell’Italicum combinato alla riforma un problema serio.

Questi critici dimenticano che l’Italicum, però, è stato all’atto pratico ‘rottamato’ dal Governo, che ha affermato che metterà mano a una nuova legge elettorale dopo l’approvazione della riforma. La marcia indietro è stata fatta principalmente per andare incontro alle perplessità espresse dalla minoranza del PD. Naturalmente c’è chi non crede alle promesse del Governo ed è disposto a giurare che l’Italicum resterà al suo posto: io credo che cambierà, ma in ogni caso non penso sia razionale bocciare una riforma costituzionale a causa di una legge elettorale. Le leggi elettorali cambiano continuamente e nulla fa pensare che in futuro non continueranno a cambiare. L’Italicum prevede un premio di maggioranza sicuramente eccessivo, e una nuova legge elettorale dovrà cercare di temperare meglio le esigenze di governabilità con quelle di rappresentatività.

Conclusioni

La riforma costituzionale che sarà oggetto di consultazione presenta, anche per me che pure la sosterrò, evidenti criticità. Si poteva fare di meglio? Senza dubbio sì. Come mai, allora, ho deciso di sostenerla? Come posso accettare che la Costituzione “più bella del mondo” venga deturpata da modifiche meno che perfette?

In realtà, la nostra Costituzione è “la più bella del mondo” per i suoi cosiddetti Principi Fondamentali, che la riforma non tocca. E anche tra i Principi Fondamentali ci sono articoli orripilanti, come il numero 7 (sui rapporti Stato-Chiesa e sui Patti Lateranensi). Chi agita la Costituzione come un feticcio spesso non sa di cosa parla. E comunque, paragonare le modifiche proposte da questa riforma con modifiche migliori da realizzare ipoteticamente in futuro è semplicemente insensato. Anzi, è una tipica fallacia logica, che si chiama fallacia del Nirvana: si paragona una situazione attuale o possibile con una inesistente e improbabile, creando una falsa dicotomia che fa deragliare il dibattito. Nella fattispecie, giusto per fare un esempio, le due opzioni in ballo non sono trasformare il Senato come prevede la riforma o abolirlo del tutto: le due opzioni sono trasformare il Senato come prevede la riforma o lasciare tutto com’è. Gli impavidi sostenitori del NO che affermano che dopo il fallimento del referendum porteranno avanti fin da subito una nuova e più bella riforma della Costituzione stanno solo esercitando la loro dialettica truffaldina: questo è il meglio che l’attuale classe politica è in grado di partorire, quindi si tratta di prendere o lasciare. Se lasciamo, dobbiamo essere consapevoli che dopo dovremo ricominciare daccapo un lunghissimo percorso di riforma che porterà a un nuovo progetto che sarà nuovamente destinato a scontentare molti di noi, perché così funziona la mediazione democratica. Nel frattempo, ci dovremo tenere il nostro bicameralismo paritario, che per quanto affascinante ha chiaramente dimostrato di non funzionare, e basta l’altissimo numero di Decreti Legge approvati nei decenni a provarlo.

Il punto su cui vorrei chiudere però è un altro. Spesso si sente dire nei dibattiti che bisogna votare “nel merito” della riforma, senza farsi influenzare da fattori esterni, quali per esempio il proprio appoggio (o la propria antipatia) verso il Governo Renzi. Ebbene, questa è una sesquipedale vaccata. Bisogna votare anche tenendo presente le conseguenze che l’esito del voto avrà sulla situazione attuale e futura: tenere presente le conseguenze del referendum *è* votare nel merito, soprattutto in un momento come questo.

L’attuale situazione della politica italiana va vista nel quadro internazionale, un quadro a tinte più che mai fosche. Con la Brexit e soprattutto con la vittoria di Trump negli Stati Uniti, il mondo occidentale si sta avviluppando in una spirale di chiusure e nazionalismi il cui esito è, per chi ha studiato la Storia, molto prevedibile. Non voglio dilungarmi ulteriormente in un articolo già lunghissimo come questo, ma ci aspettano anni di sofferenza e distruzione, e non si tratta solo di metafore. Credo fermamente che sia compito di ciascuno di noi rallentare questo processo, difendendo con le unghie e con i denti il sistema delle democrazie che fino a questo momento ha messo al riparo la generazione mia e quella dei miei genitori dalla guerra e dalle dittature. Anche a me il PD di Renzi non piace particolarmente, ma in questo momento è l’unico schieramento politico che in Italia è disposto a sostenere il sistema della democrazia rappresentativa di ispirazione europeista e che può avere la forza sufficiente per farlo. Abbatterlo significa mettere anche l’Italia nelle mani dei fascismi e dei populismi che hanno già conquistato il Regno Unito, gli Stati Uniti e tra qualche mese conquisteranno la Francia. Mi piacerebbe che questo quadro fosse chiaro a tutti: purtroppo non lo è, perché per molti è difficile avere uno sguardo ampio sul mondo ed è anche difficile riconoscere la vera natura del potere distruttivo finché non ci riguarda direttamente.

Ebbene, sono finiti i tempi in cui ci si può permettere di fare i duri e puri votando Bertinotti, ché tanto Berlusconi più di tanto non può far danni. In quei tempi le democrazie occidentali erano solide: adesso stanno crollando davanti ai nostri occhi. Amici progressisti: quando votate, fate attenzione a quel che il vostro voto provocherà davvero. Il 4 dicembre potrebbe non essere in ballo solo la Costituzione.


2 comments »

  1. Nemo says:

    Un articolo molto logorroico e scritto malissimo. Tuttavia lascio una risposta, seppur velocemente.

    Io sono favorevole alla riforma del Senato e alla fine del bicameralismo perfetto. Tuttavia non ritengo sensato lo stravolgimento della struttura: bastava depotenziare il Senato invece di trasformarlo in qualcos’altro. L’importante è creare un organo che funzioni, non qualcosa di cui il funzionamento non è ancora stato definito. Votare Sì significa votare per qualcosa il cui funzionamento verrà definito nel dettaglio solo a posteriori.

    Inoltre non mi piace l’idea di votare per il cambiamento di 42 articoli della Costituzione tutti in una volta. Non sembra una cosa un po’ ‘assolutista’? Si mettono insieme cose molto diverse fra di loro in un minuscolo monosillabo. Anche i tronfi iper-certi della loro (presunta) altissima intellighenzia dovrebbero rendersene conto.

    Per fare un esempio semplice, che veicola rapidamente il messaggio: se passa il Sì i membri del Parlamento cesseranno di essere rappresentati della Nazione (si vedano le modifiche all’articolo 67). Quindi la nuova Costituzione prevede che le persone elette non rappresentino il paese per il quale lavorano. Ciò mi sembra assurdo. L’autore dell’articolo si definisce un partigiano della Costituzione. Mi sorprende alquanto che un tale personaggio possa dire di Sì ad una cosa del genere.

    Sarebbe stato più civile se le varie modifiche fossero state accorpate in sottoinsiemi e distribuite in più referendum. Perché mi chiedo: chi può essere favorevole all’aumento delle firme (da 50mila a 150mila) per le leggi di iniziativa popolare? E cosa c’entra questo con il bicameralismo perfetto, oggetto di discussione che il fronte del Sì ha scelto come suo cavallo di battaglia? Tutti quelli che interpello e che si mostrano favorevoli alla riforma riducono tutto a questo aspetto. Nonostante la noiosissima logorrea, anche l’autore di questo articolo nelle conclusioni riduce il suo voto proprio a questo. Quindi NON si rende pienamente conto che il referendum è anche ALTRO.

    Per di più il tentativo di spostare la discussione sul piano politico è una scelta ben grama, mirata all’ingenuo tentativo di far credere che la vittoria del No porterà alla Terza Guerra Mondiale (‘sticazzi). Io voterò No ma spero che il Governo Renzi non cada e che continui a governare. Tanto un’altra tornata elettorale non migliorerà le cose, ciò che deve migliorare è prima di tutto il cervello ma anche anche l’etica degli italiani. Ce ne vorrà di tempo perché questo accada, e di certo la fine del bicameralismo perfetto non accelererà le cose.

    Purtroppo l’autore di questo articolo trapela sdegno e ripugnanza per chi la pensa diversamente da lui, lasciando intendere che chi vota No è un estremista di destra, nonché fascista. Sono chiacchiere molto strampalate. Chi non rispetta il diverso è lui stesso un estremista: non avere rispetto per chi la pensa diversamente vuol dire non aver capito cos’è la democrazia. Che ne abbia coscienza o meno, così è. Spero che l’autore dell’articolo se ne renda conto.

    • Mosè Viero says:

      Nell’articolo cerco di esaminare tutte le sfaccettature del referendum e non solo il superamento del bicameralismo paritario: non so come si possa pensare che io riduca il referendum a quello quando metà articolo è su tutto il resto (peraltro, io sono favorevolissimo all’innalzamento di firme per le leggi di iniziativa popolare, se questo innalzamento si accompagna all’obbligo di discuterle).
      L’ipotesi spacchettamento ha avuto un momento di gloria all’inizio dell’estate, ma alla fine non se ne è fatto nulla perché il Parlamento non ha agito con decisione in quel senso. Come dico nell’articolo, questo è il meglio che questa classe politica riesca a offrirci, e in questo “meglio” c’è anche l’idea che si prende tutto o si lascia tutto. È forse spiacevole ma è così, quindi ora la decisione va presa in base alla situazione contingente.
      Forse la vittoria del NO non porterà alla Terza Guerra Mondiale, ma certo accelererà la crescita delle forze anti-sistema. Il Movimento Cinque Stelle ha nel suo programma un referendum per l’uscita dell’Italia dall’euro. Se l’Italia esce dall’euro, l’euro crolla. Se l’euro crolla, vuol dire guerra. Magari non subito, per carità. Magari tra dieci o vent’anni o cinquant’anni, ma la direzione è quella.
      Ebbene, io sono felice di vivere in un tempo di pace e non vorrei essere coinvolto in una guerra, a differenza a quanto pare dell’autore del commento qui sopra. Quindi agisco secondo le modalità che secondo me aiutano la sopravvivenza delle istituzioni nazionali e comunitarie che garantiscono la pace. Probabilmente dopo la Brexit e dopo Trump è già tardi per invertire la tendenza: ma almeno cerchiamo di fare quel poco che si può.

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