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Referendum del 20 e 21 settembre 2020: dichiarazione di voto

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September 3, 2020 by Mosè Viero

Il prossimo 20 e 21 settembre saremo chiamati a votare per il referendum confermativo cosiddetto sul “taglio dei parlamentari”. La relativa riforma costituzionale, che prevede appunto la riduzione del numero dei parlamentari da 945 a 600 (di cui 400 alla Camera e 200 al Senato), è stata approvata dai due rami del Parlamento a maggioranza semplice e non a maggioranza qualificata dei due terzi: per questo è necessario il referendum confermativo, inizialmente previsto per il 29 marzo 2020 ma rinviato a causa del COVID-19. Il referendum sarà accorpato, in molte parti d’Italia, con le elezioni amministrative: questo ha provocato la sollevazione, da parte del Comitato per il No, di +Europa e della Regione Basilicata, di vari conflitti di attribuzione, che però sono stati rigettati dalla Corte Costituzionale. Secondo la Consulta, dunque, la concomitanza delle votazioni non inficerà il risultato del referendum: i prossimi 20 e 21 settembre saranno perciò, a tutti gli effetti, due election day di primaria importanza. Qui nel Veneziano il referendum si accompagnerà alle elezioni regionali e alle elezioni comunali: tra qualche giorno scriverò la mia dichiarazione di voto anche per queste consultazioni.

Per il momento concentriamoci sul referendum. Un primo punto centrale è che si tratta di un referendum confermativo, quindi senza quorum: la strategia di “andare al mare” o semplicemente di rifiutare la scheda per farlo fallire è dunque da scartare.

Il metodo tramite cui decido come utilizzare il mio importante potere nell’urna elettorale si basa, come ho già spiegato in altre occasioni, su due criteri: un criterio di primo ordine e un criterio di secondo ordine. Il criterio di primo ordine è l’effetto concreto che il risultato del voto avrà sulla situazione politica e quindi sociale ed economica del Paese; il criterio di secondo ordine è la mia preferenza personale, stabilita sulla base dei miei principi etici e morali.

Cominciamo dal criterio di primo ordine. Che effetto avrà la vittoria del SÌ? Indubbiamente la conseguenza più eclatante dell’affermazione del taglio sarà una nuova forza per il Movimento 5 Stelle, da sempre alfiere delle battaglie contro i “costi della politica”. Indirettamente, si rafforzerà anche il Governo, che vede nel Movimento 5 Stelle il suo più importante sostegno parlamentare, nonché il riferimento politico dello stesso Presidente del Consiglio.

A voler ben guardare, il M5S è l’unico partito che si riconosce pienamente e senza dubbi nella battaglia referendaria: tutte le altre forze politiche sono in qualche modo divise e percorse da dubbi, oppure schierate monoliticamente per il NO. Le opposizioni di destra, nelle ‘persone’ di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, in teoria appoggiano il referendum, che in effetti incarna molto bene quello spirito semplificatore e populista tipico del nostro conservatorismo reazionario: ma non mancano esponenti di questi partiti che manifestano dubbi o che si schierano apertamente per il NO. Per esempio il senatore Alberto Bagnai, importante figura della Lega salviniana, e addirittura lo stesso Silvio Berlusconi, che sembra ormai propenso, nonostante stiano facendo campagna per il SÌ molti suoi compagni di partito, a posizionare quest’ultimo nell’area della “libertà di voto”. Alle considerazioni di merito si accompagnano sicuramente valutazioni di carattere politico: se il SÌ rafforza il Governo, è naturale che parte dell’opposizione vada verso il NO. Non si può certo dire, peraltro, che il SÌ goda di consenso unanime tra i sostenitori del Conte-bis: come dicevamo, è solo il M5S a sostenere il taglio compattamente. Il suo attuale alleato principale, il Partito Democratico, sta dando vita in questi giorni a una delle sue ahinoi tipiche, patetiche sceneggiate. Dopo aver votato varie volte contro il taglio in Parlamento, ora il suo Segretario, Nicola Zingaretti, ha schierato ufficialmente il partito sul SÌ, ma senza consultarne gli organi dirigenti, che si stanno ribellando a questa decisione calata dall’alto (peraltro, il Segretario poco prima di schierarsi per il SÌ aveva convocato una Direzione di partito per deciderne la posizione: ora il partito sta chiedendo di evitare almeno questo umiliante passaggio). L’incomprensibile comportamento di Zingaretti ha dietro di sé le tipiche ragioni di opportunismo politico di cui il PD si è fatto spesso rappresentante: il NO farebbe male al Governo, quindi va sostenuto il SÌ. Anche se stiamo parlando di una battaglia squisitamente grillina, contro cui il PD ha sempre combattuto. Le voci critiche sono però molto forti e molto attive, e tra esse vi sono esponenti non certo di secondo grado (Romano Prodi, Matteo Orfini, Giuditta Pini). Sempre nell’ambito della maggioranza, Italia Viva ha scelto, per evitare tensioni con gli alleati, la formula della “libertà di voto”: in realtà tutti i suoi esponenti più in vista stanno facendo campagna per il NO. Anche i parlamentari più di sinistra, riuniti nel gruppo di Liberi e Uguali, sono in larga parte schierati per il NO, incluso il ‘capo’ Pietro Grasso.

Sinteticamente, la vittoria del SÌ rappresenterebbe, politicamente, un motivo di rinascita per un partito, quello grillino, dato per morto solo pochi mesi fa (un po’ inavvertitamente, dato che i sondaggi lo danno tutt’altro che disinnescato): nessun altro oltre al M5S si è davvero intestato questa battaglia.

Ma al di là della situazione del quadro politico, quali saranno le conseguenze più ‘tecniche’ di una vittoria del SÌ? Chi mette l’accento sul risparmio mente sapendo di mentire: le voragini di spesa del nostro scalcagnato Paese sono innumerevoli, ma il famigerato costo della politica è l’ultimo di cui dovremmo preoccuparci, sia per quanto riguarda gli ordini di grandezza (il risparmio effettivo provocato dal referendum sarà di 3,12€ all’anno per ciascuna famiglia) sia se consideriamo le alternative (cosa vorrebbero al posto della Repubblica Parlamentare i sostenitori del “risparmio”? Una monarchia assoluta? Una dittatura?) Chi afferma che un Parlamento ‘snello’ funzionerebbe meglio lo fa senza nessuno studio che sostenga questa ipotesi: a rendere lento e farraginoso il processo legislativo in Italia, d’altro canto, non è certo il numero dei Parlamentari, quanto piuttosto i meccanismi del bicameralismo perfetto. Se i promotori della riforma avessero avuto a cuore il funzionamento del sistema, avrebbero proposto, appunto, una riforma di sistema. Come quella messa a punto dal Governo Renzi nel 2016 e bocciata dall’elettorato: per quanto fosse criticabile, quello era un tentativo di riformare il sistema. Questo invece è nient’altro che uno spot pubblicitario per un partito.

Spot che peraltro si tenta di realizzare sulla pelle della rappresentanza, che in caso di vittoria del SÌ si troverebbe decisamente ridimensionata, soprattutto per quel che riguarda certe zone del Paese. Ma anche parlando in generale: se la riforma passasse, l’Italia avrebbe, con 1 parlamentare ogni 151000 abitanti, il più basso tasso di rappresentanza di tutta Europa. Questo avrebbe una serie di conseguenze a catena: dato che i primi posti nelle liste spettano sempre, com’è ovvio, ai “pezzi grossi” della politica, l’ingresso in Parlamento diventerebbe difficile soprattutto per le retrovie, cioè per i candidati meno noti e conosciuti, che sono spesso, però, anche i più legati al territorio. Un altro elemento da molti trascurato è la conseguenza che il taglio avrà sull’elezione del Presidente della Repubblica: la minor quantità di parlamentari darà un peso sproporzionato a quello, già eccessivo per chi pensa che la frammentazione territoriale sia perniciosa, dei Consiglieri Regionali.

Quindi direi che non ci sono dubbi: secondo il criterio di primo ordine, che si considerino le conseguenze del voto a livello politico o a livello tecnico e pratico, la scelta più sensata per un elettore liberale e democratico è votare NO.

Passiamo al criterio di secondo ordine. Qual è la mia preferenza personale? È meglio un Parlamento con 945 membri o uno con 600 membri? Già solo porre la domanda in questi termini fa capire quanto sia pretestuosa questa consultazione elettorale. I sistemi politici funzionano o non funzionano non sulla base di criteri puramente numerici, ma sulla base della costruzione del sistema. Per quanto mi riguarda, il nostro assetto costituzionale è largamente insoddisfacente: il bicameralismo perfetto è assurdo, la burocrazia statale è asfissiante, i sistemi elettorali che cambiano a ogni folata di vento non fanno altro che confondere, eccetera. Una riforma di sistema che includesse un taglio dei parlamentari, quindi, non mi vedrebbe contrario per principio: tutto dipenderebbe dalla razionalità o meno dell’insieme. Certo non sarei entusiasta di una riforma che mettesse tra le sue ragioni il puro e semplice risparmio di denaro: nessuno dovrebbe essere contento nello sperperare i soldi del contribuente, ma bisogna cercare di affermare l’idea che la democrazia costa, e che le sue alternative sono più economiche solo in teoria.

Quindi anche in questo caso non ci sono dubbi: anche secondo il criterio di secondo ordine a questa riforma si deve votare NO.

La battaglia, ci tocca confessarlo, sembra persa in partenza. L’elettore medio va in sollucchero al solo pensiero di poter “tagliare parlamentari”. È il frutto perverso di trent’anni di informazione populista, maggioritaria da Tangentopoli in avanti. La presa di posizione per il NO anche coraggiosa di certi organi di stampa (come la Repubblica, che con la nuova direzione di Molinari sembra un po’ meno stampella del PD zingarettiano) non sarà sufficiente, temo, a invertire il vento. Però val la pena provarci, se non altro per tenere alta la bandiera dell’amore per la democrazia.


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