Patriottismo e Secessionismo, ovvero le Rinunce
2September 25, 2017 by Mosè Viero
La Catalogna vuole l’indipendenza: non contenta dello statuto di semi-autonomia di cui già gode nel sistema giurisdizionale spagnolo, vuole separarsi completamente da Madrid. Ergo il governo locale, emanazione del ‘popolo’ catalano, ha indetto un referendum il giorno 1 ottobre 2017. Madrid non è d’accordo: il governo centrale ha ordinato alle forze di polizia di sequestrare tutto il materiale connesso all’organizzazione del referendum, e sono anche stati arrestati alcuni funzionari coinvolti nell’operazione. Ora l’Europa guarda col fiato sospeso al 1 ottobre: i partiti indipendentisti catalani potrebbero decidere di procedere comunque con la consultazione, forzando la risposta violenta da parte del governo centrale.
Che in Catalogna ci siano velleità separatiste non è una novità, anzi è un tema, questo, che torna periodicamente all’ordine del giorno. Peraltro, anche altri ‘popoli’, in Europa, aspirano all’indipendenza: per esempio il valoroso popolo veneto, la cui dirigenza regionale ha indetto un referendum “consultivo” (parolina magica che permette a chi lo organizza di non finire dritto a Sing Sing) per il 22 ottobre. D’accordo: paragonare la Catalogna, che è comunque dotata di una certa identità locale con tanto di lingua codificata e utilizzata anche per gli atti pubblici, con il Veneto, entità totalmente inesistente dal punto di vista etnografico e culturale, può sembrare un azzardo. Eppure, c’è un profondo vizio logico e di sostanza che accomuna queste due vicende e in generale tutto il marketing politico incentrato sui concetti di autonomia e indipendenza.
Il tema è scivoloso e infatti fa sbandare anche i progressisti più sinceri. L’idea che una certa comunità possa auto-identificarsi come tale e pretendere indipendenza da un governo non riconosciuto come legittimo è invitante, perché solletica la nostra vicinanza a concetti quali l’auto-determinazione, la giustizia, la libertà. La cantautrice islandese Bjork, non certo etichettabile come nazionalista o più in generale conservatrice, scrisse nel 2007 una canzone intitolata Declare independence, presto diventata un suo classico, nella quale invita i popoli del mondo ad alzare le proprie bandiere, a battere moneta, a proteggere i propri confini, intercalando le strofe con la parola justice. Nei concerti in giro per il mondo, il brano è stato dedicato al Kosovo, alla Groenlandia, alla Scozia e finanche al Tibet, causando alla cantante non pochi problemi con il governo di Pechino.
Ora: simpatizzare con il governo cinese è un qualcosa che va al di là delle mie possibilità. Eppure, quando a suo tempo da grande fan di Bjork lessi di queste vicende non potei fare a meno di pensare che la lotta che la cantante stava portando avanti era una solenne idiozia. Per quanto possano essere rivestite da ideali progressisti, le battaglie indipendentiste hanno sempre in qualche modo urtato con il mio essere cittadino libero e razionale all’interno di una comunità-stato moderna. Fino a qualche tempo fa pensavo che la colpa fosse quasi esclusivamente della salienza semplicistica e reazionaria che queste battaglie hanno sempre avuto qui in Veneto. Ma da un po’ ho messo a fuoco la questione e ho capito che il temperamento fascistoide della Lega e dei partiti affini non ha nulla a che fare con questo problema: la faccenda è assai più profonda e complessa.
Volendo essere sintetici, il problema è che i popoli non esistono. L’umanità è fatta di individui. Certo, per amministrare una società fatta di individui ognuno diverso dall’altro è necessario creare ordinamenti e istituzioni: Governi, Stati, Regioni, Comuni. E d’altro canto è perfettamente sano e naturale che gruppi di individui si riconoscano come comunità sulla base di affinità di tipo linguistico, culturale, etnico. Ma attenzione: queste due entità, cioè gli ordinamenti e le comunità di affini, non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. Anzi: non *devono* avere nulla a che fare l’una con l’altra: perché se i cittadini di uno Stato identificano il proprio ordinamento con la propria comunità di affini, si aprono le porte al razzismo, all’odio, alla xenofobia.
Soprattutto, quando uno Stato sovrappone se stesso a valori estetici non misurabili quali l’uguaglianza, la giustizia, o peggio la religione o un qualunque credo filosofico o un qualunque prodotto culturale, sta auto-distruggendo le sue stesse fondamenta. Un argomento tipico a favore del referendum catalano è stato, in questi giorni, l’assunto secondo cui qualunque Stato realmente democratico deve avere regole che consentano la secessione e l’auto-determinazione delle comunità. È, questa, una conseguenza assolutamente logica dell’identificazione dello Stato con una comunità di affini: se lo Stato spagnolo rappresenta la ‘spagnolità’, è chiaro che se io non mi identifico con la ‘spagnolità’ non voglio far parte di quello Stato. Ma gli Stati sono, o per meglio dire dovrebbero essere, pure e semplici entità amministrative, e non dovrebbero avere nulla a che fare con il sentimento di appartenenza a una comunità.
La ragione è semplicissima: le comunità sono prodotti culturali e si formano sulla base di valori non misurabili, che cambiano in continuazione. Dove inizia una comunità di affini e dove finisce esattamente? Nella regione in cui vivo il dialetto cambia in maniera sostanziale a ogni manciata di chilometri, e spostandosi dalla città alla campagna le abitudini di vita si trasformano radicalmente. Dove si mette il confine tra una comunità e la successiva? E soprattutto: come si gestiscono il viaggio, la migrazione, lo spostamento? Il problema è tutto qui: sovrapporre uno Stato o una qualunque entità amministrativa con una identità culturale porta all’inevitabile conseguenza di confondere il diverso con lo straniero, o per meglio dire con il clandestino. O di spendere il proprio tempo prezioso progettando improbabili secessioni o celebrando i meriti incondizionati del proprio Stato, identificato senza se e senza ma con il proprio sistema di valori: il patriottismo in fondo è, della volontà di secessione, l’incarnazione uguale e contraria.
Mi sento io forse italiano, qualunque cosa questo voglia dire? In realtà non sempre, anzi probabilmente quasi mai. Ma questo non vuol dire che io non voglia vivere in Italia: mi va benissimo vivere in Italia, finché l’Italia mi consente di vivere come voglio. Il nocciolo della faccenda è questo. L’unico valore di cui devono farsi portatori gli Stati e le entità amministrative è quella che potremmo chiamare la laicità culturale: l’amministrazione non deve mai identificarsi con una determinata comunità di affini, perché deve accogliere al suo interno i membri di qualunque comunità e garantire loro piena libertà, ovviamente nel rispetto delle libertà altrui.
D’altro canto, la distopia più comunemente descritta in letteratura come la più opprimente è proprio la comunità di affini che non lascia spazio alla diversità. Da che mondo è mondo, l’essere umano si arricchisce non tramite il contatto con il simile, ma tramite il contatto con il diverso. Ma la convivenza tra diversi è possibile solo se lo Stato è culturalmente neutro e solo se gli individui rinunciano a identificare le istituzioni con il proprio sistema di valori. Il primo passo, forse, è comprendere che nessun sistema di valori pre-codificato potrà mai racchiudere l’essenza del singolo individuo. Ciascuno di noi è un universo di idee, sentimenti, pensieri: delegare l’espressione di ciò che siamo a una istituzione, che deve per forza di cose essere codificata fin nei minimi dettagli, significa rinunciare a dispiegare la nostra individualità. Che vuol dire, più o meno, rinunciare a vivere.
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Nella seguente frase, estratta dall’articolo:
– […] confondere il diverso con lo straniero, o per meglio dire con il clandestino.
È presente un errore di italiano.
In questa frase il termine “clandestino” viene accostato in maniera impropria con il termine “straniero”.
Un clandestino è una persona che svolge un’azione di nascosto, generalmente nei confronti di una qualche autorità. Tale è la definizione che si trova in qualsiasi dizionario della lingua italiana.
L’azione può essere di vario tipo (es. il contrabbando, un matrimonio oppure la pubblicazione di un giornale).
Invece con il termine “immigrato” si intende una persona che vive in un paese diverso da quello di origine. Ad esempio uno spagnolo che vive in Polonia è un immigrato. Ma anche un cittadino di Taranto che si sposta a Padova è un immigrato. Quindi, per inciso, essere “stranieri” è una condizione sufficiente ma non necessaria per essere “immigrato”. Nonostante questo, immigrato e straniero possono essere usati come sinonimi.
Detto ciò, gli immigrati possono essere regolari o clandestini. Sono regolari quando dispongono di un visto o di un permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità. Sono clandestini quando non dispongono di alcun tipo di permesso e, presumibilmente, hanno varcato la frontiera di nascosto.
Finora è stato spiegato il termine “clandestino” utilizzato come aggettivo. D’altro canto il termine “clandestino” utilizzato come sostantivo indica una persona priva di documenti e che non può verificare la sua identità oppure che non possiede alcun diritto di permanenza in un certo luogo. Solitamente tale luogo è un mezzo di trasporto (treni, navi o aerei). Ad esempio un italiano, che si imbarca di nascosto e senza permesso su di una barca anch’essa italiana, è da considerarsi un clandestino. Ma anche un italiano che non è in grado di esibire un documento di identità è un clandestino, proprio perché quello che sta facendo è di tenere nascosta la sua identità alle autorità.
Per quanto riguarda ciò che l’autore di questo articolo esprime, è palese che esso è errato, addirittura ingenuo.
Tutto verte sulle seguenti due frasi:
– Volendo essere sintetici, il problema è che i popoli non esistono. L’umanità è fatta di individui.
I popoli esistono eccome, basta parlarne con un antropologo o con uno storico. Ma anche interrogando il semplice buon senso di qualunque persona è assurdo trovare il benché minimo grado di verità nell’affermare che “i popoli non esistono”.
Per quanto riguarda la seconda frase, “L’umanità è fatta di individui”, si può dire che è sicuramente vera. Si tratta di una tautologia, in sostanza.
Tuttavia le relazioni che regolano i rapporti tra due singoli *individui* sono estremamente diverse dai rapporti che regolano i rapporti tra due singoli *gruppi*. E su questo argomento gli storici, gli antropologi ma soprattutto gli psicologi hanno investito decenni di studi.
Per finire, questa frase:
– L’unico valore di cui devono farsi portatori gli Stati e le entità amministrative è quella che potremmo chiamare la laicità culturale: l’amministrazione non deve mai identificarsi con una determinata comunità di affini, perché deve accogliere al suo interno i membri di qualunque comunità e garantire loro piena libertà, ovviamente nel rispetto delle libertà altrui.
Non fa altro che descrivere uno Stato irreale e utopico, che non è mai esistito, non esiste e con grandissima probabilità non esisterà mai. Siamo tutti bravi ad elaborare un pensiero riguardo al desiderio di volere *la pace nel mondo*. Un mondo in cui tutte le tensioni e i contrasti sono svaniti nel nulla e tutti andiamo d’amore e d’accordo.
Ma questo è un soltanto pensiero ingenuo, niente di più.
Non capisco l’utilità della dissertazione sui termini “clandestino” e “straniero”, né vedo l’errore che avrei fatto, quindi soprassederò.
Quanto al resto, lo Stato che garantisce la “laicità culturale” non è affatto un’utopia, è una felice realtà in quasi tutti i Paesi dell’Occidente progredito. In Italia, per esempio, io sento di essere libero di vivere come voglio: non mi sento veneto, non mi sento veneziano, non condivido gran parte delle idee dei miei concittadini, eppure posso vivere in Veneto e a Venezia senza che nessuno mi rompa le scatole. Questo era quello che intendevo, né più né meno.