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Non affittare l’utero, ché diventi cieca

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March 1, 2016 by Mosè Viero

Mai come in questi giorni è evidente quant’è complicato affermare razionalità e progresso in un’umanità dominata da pregiudizi, paure irrazionali, tabù ancestrali e soprattutto odio verso l’autodeterminazione, qualunque sia la forma che essa assume.

Qualche giorno fa il povero Nichi Vendola, politico di lungo corso noto principalmente per la sua verve retorica dal sapore antico, ha osato avere un figlio con il suo compagno, il grafico canadese Ed Testa. Naturalmente la coppia ha dovuto ricorrere alla cosiddetta maternità surrogata, pratica proibita in Italia ma consentita in vari Paesi del mondo, tra cui una parte degli Stati Uniti: nella fattispecie, la gestazione di Tobia Antonio (questo il nome del nuovo nato) è avvenuta in California, che ha regolamentato la surrogazione di maternità già parecchi anni fa.

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Ora: che la nascita del figlio di Nichi Vendola abbia scatenato l’inferno presso la cosiddetta destra italiana, costituita da gente che vieterebbe anche la cucina a microonde in quanto contro natura, non stupisce. Ciò che stupisce è che il cosiddetto “utero in affitto” tende a sconvolgere anche personalità insospettabili, appartenenti a gruppi e schieramenti che si immaginerebbero aperti a ogni forma di autodeterminazione. Per esempio, ha appena espresso la sua contrarietà a questa pratica la Presidente della Camera Laura Boldrini, solitamente assai sensibile alle istanze collegate ai diritti e alle libertà personali. E come mai la terza carica dello Stato non vuole l’utero in affitto? Ovvio: perché si tratterebbe di “sfruttamento” della donna.

Val la pena cogliere la palla al balzo, perché questa argomentazione viene tirata in ballo spesso quando si parla dell’autodeterminazione femminile. La tesi è la seguente: la donna che cede il proprio corpo, sia per prostituirsi sia per altre pratiche più estreme tipo la maternità surrogata, sarebbe una donna disperata, alla canna del gas, che sta solo cercando di racimolare denaro per condurre un’esistenza dignitosa.

In realtà non è vero (molte donne che offrono l’utero sono benestanti e concedono la loro prestazione in liberalità), ma facciamo finta che lo sia. Facciamo finta che tutte le prostitute, le pornostar e le madri surrogate siano povere in cerca di qualche quattrino. La domanda è: qual è la differenza tra loro e le donne povere che fanno qualunque altro lavoro?

Possibile risposta numero uno: la differenza è che quel che fanno loro le umilia come persone. Controbattuta: ciascuno ha valori differenti ed è umiliato da comportamenti differenti. Io trovo insopportabilmente umiliante tentare di vendere qualcosa a qualcuno, per esempio: mi limiterò a evitare di fare lavori che comportino la vendita, ma mi parrebbe esagerato cercare di bandire i venditori per legge. Sarò strano io, ma non capirò mai perché passare le giornate ad avvitare bulloni in un’officina rumorosa e maleodorante dovrebbe essere più dignitoso che passare le giornate a fare sesso con sconosciuti. Io tra le due opzioni sceglierei tutta la vita la seconda.

Possibile risposta numero due: la differenza è che quel che fanno ha conseguenze a lungo termine sul loro corpo. Controbattuta: HA! Ci sono milioni di lavori che hanno effetti negativi a lungo termine sul corpo, eppure nessuno se ne preoccupa. Perfino il lavoro di una guida turistica come me, che rispetto a tanti altri è meraviglioso, è assai debilitante per il corpo, tanto che una buona percentuale dei miei guadagni va in cure mediche: ma non ricordo nessuna mobilitazione a favore della mia schiena.

La contrarietà alla maternità surrogata è interessante proprio perché smaschera la sessuofobia e la misoginia latenti in chi se ne fa portavoce, e che prende le forme di una clamorosa ipocrisia. L’ipocrisia secondo cui le storture del capitalismo diventano inaccettabili solo quando riguardano l’ambito sessuale o riproduttivo. L’ipotetica donna disperata che per racimolare qualche soldo deve dedicarsi alla surrogazione di maternità interessa ai moralisti solo nel momento in cui osa affittare l’utero: quando deve cucire abiti per venti ore di seguito, frugare per giorni tra i rifiuti alla ricerca di componentistica elettronica o zappare sotto il sole cocente, l’interesse per la sua sorte sfortunata tende improvvisamente a scemare.

Notiziona: il capitalismo fa schifo, perché ci costringe tutti quanti a fare quel che non vorremmo fare e a monetizzare tutto, incluso il tempo e incluso talvolta il nostro stesso corpo. Ma è un problema che va visto nella sua interezza. Se il capitalismo ti dà fastidio non in sé ma solo in alcune delle sue espressioni, chiediti come mai. Anzi, lascia stare ché te lo dico io: a darti fastidio non sono affatto le aberrazioni a cui può costringerci la sete di denaro, bensì l’idea che ciascuno abbia la piena libertà di fare ciò che vuole del suo corpo.

Se sono padrone del mio corpo, sono libero di farne ciò che voglio: anche di farne puro e semplice strumento di guadagno, in qualunque modo mi passi per la testa. L’unico criterio dev’essere il rispetto per i diritti e la libertà altrui. E qui già immagino l’obiezione del moralista d’accatto: e i bambini? Ai diritti dei bambini, chi ci pensa? (E ai marò? Chi ci pensa, ai marò?) L’unico diritto che hanno i bambini è quello di crescere in un ambiente sereno e amorevole: e le modalità tecniche della loro nascita non hanno molto a che fare con questo. Ancora una volta: sarò strano io, ma preferirei mille volte essere il figlio di Vendola e del suo compagno che non di una madre naturale alcolizzata e col marito violento.

La verità è che molti di noi sono, in fondo, terrorizzati dall’idea della piena libertà personale e della piena autodeterminazione. Perché vivere in una società libera significa essere costantemente di fronte a scelte di vita che ci lasciano costernati, che non riusciamo a incasellare nei nostri schemi mentali spesso limitati e meschini. Ma attenzione: se la libertà e l’autodeterminazione altrui ci infastidiscono, vuol dire che noi per primi dubitiamo delle scelte che abbiamo fatto nella nostra vita. I moralisti, in fondo, sono persone deboli e insicure. Ma non dobbiamo per questo lasciare loro campo libero, o finiremo tutti intrappolati nella loro insicurezza.


1 comment »

  1. Nemo says:

    Nessuno affronta mai la questione di come i bambini reagiscono quando acquistano la consapevolezza di avere due “papà” o due “mamme”.

    Ancor prima di parlare di moralismi e amenicoli vari, perché non pensiamo ai bambini? Solitamente i diritti dei più deboli sono anche quelli più salvaguardati, ma perché in questo caso dei bambini non si parla mai?

    L’esempio è questo: meglio avere due genitori omosessuali piuttosto che una mamma alcolizzata. Si utilizza un esempio pessimo che non riesce a giustificare l’idea che vuole trasmettere.

    Avere una mamma alcolizzata è un evento molto raro. In vita mia non ho mai incontrato una situazione del genere… Escludendo film drammatici e serie TV.

    Ci sarà mai qualcuno che parlerà dei bambini e non dei genitori omosessuali che voglio mettere su famiglia? Questa unilateralità del discorso mi infastidisce enormemente. E chi si salva dicendo “meglio un genitore gay che una mamma alcolizzata” mi pare uno che voglia avere ragione con idee molto semplicine, per niente soddisfacenti.

    Una cosa l’abbiamo risolta: gli omosessuali hanno diritto ad avere bambini.

    Però adesso andiamo avanti, chiediamoci anche l’inverso. Facciamo questo sforzo. Dobbiamo farlo. Se ci si ferma dicendo “no vabbè, ma tanto sei un moralista” allora ricadiamo nel modestissimo modo di pensare all’italiana dove le discussioni di qualsiasi genere si concludono ben presto con “Comunista!” e “Fascista!” da ambo le parti.

    Argomentiamo le idee, e magari sforziamoci di usare ragionamenti sostanziali.

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