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Le “sardine” non sono la soluzione, sono il sintomo

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November 20, 2019 by Mosè Viero

Da qualche giorno, il nuovo mantra di chi nobilmente si mette in gioco per resistere all’ascesa apparentemente inarrestabile di populismo e nazionalismo è auto-definirsi “sardina”. La genesi di questo strano pseudo-movimentismo è nota: quattro giovani ragazzi bolognesi hanno organizzato, lo scorso 14 novembre, un flash mob per cercare di attirare in piazza almeno 6000 persone nella stessa serata in cui era in programma un comizio del felpato al Paladozza, che può ospitare al massimo, ufficialmente, 5570 persone. Unica richiesta da parte degli organizzatori: portare con sé non bandiere di partito ma solo immagini di sardine, un’allusione al fatto che ci sarebbe stata talmente tanta gente da doversi stringere come, appunto, sardine. Il simpatico pesciolino, in realtà, si presta ad altri significati metaforici: prima tra tutte l’immagine del banco di pesci piccoli che si ‘mangia’ il pesce grande. Ebbene, l’adunata ha avuto un successo che è andato molto oltre le aspettative. L’esperimento è stato ripetuto con altrettanto successo a Modena, ma gruppi di “sardine” stanno nascendo in questi giorni un po’ ovunque, anche dove non vi sono elezioni imminenti come in Emilia Romagna.

Tutto molto bello, sembra. Cosa può esserci di sbagliato in quattro ragazzi che mobilitano una città contro il nazionalismo e il populismo? Se fossi bolognese o modenese, sarei sicuramente stato in prima linea, con la mia bella sardina di cartone. Eppure devo confessare che ogni volta che la società civile si attiva indipendentemente dai partiti e anzi quasi contro i partiti, trovo la faccenda sottilmente fastidiosa.

Non è una questione che riguardi solo le “sardine”. Ormai girare con in mano una bandiera di partito, di qualunque partito, ti fa sembrare quasi un appestato. Anche quando qui a Venezia si organizzano presidi o manifestazioni per la residenzialità, contro le grandi navi e per la difesa della città, la parola d’ordine è quasi sempre la stessa: niente bandiere di partito. I quattro giovani bolognesi organizzatori dei raduni delle “sardine” non mancano di specificare, a ogni intervista, di non occuparsi di politica ma di tutt’altro: ci mancherebbe che si occupassero di politica, non scherziamo, la politica è una cosa ‘sporca’.

Le ragioni di questo approccio, come sappiamo, affondano nella nostra storia recente. Dopo gli scandali che negli anni Novanta hanno travolto quasi tutta la classe politica italiana, l’opinione pubblica, anche la più illuminata e progressista, ha chiesto e imposto ai partiti ‘tradizionali’ un passo indietro. Questo si è tradotto nella nascita di nuove forze politiche (la Lega di Umberto Bossi, Forza Italia di Berlusconi), nella trasformazione profonda di alcuni partiti (dal Partito Comunista al Partito Democratico della Sinistra fino all’attuale PD), ma anche nel germogliare della retorica della società civile. I più attempati tra i lettori ricorderanno che prima dell’avvento dell’internet si faceva un gran parlare del popolo dei fax: lettori di quotidiani che inondavano le redazioni di suggerimenti e proteste, con l’intento nobile di riempire il vuoto lasciato dalla politica ‘tradizionale’, ormai irrimediabilmente compromessa.

Intendiamoci: che il cittadino si attivi dal basso per far valere le proprie istanze è giusto e sacrosanto, ed è anzi il segno di una società matura, che non si limita a delegare ma partecipa in prima persona al processo decisionale. Il problema è che tutto questo dovrebbe verificarsi non contro la rappresentanza, ma assieme a essa. In altri termini: eleggo il mio rappresentate in Parlamento e poi controllo che si comporti bene; se lo fa voto di nuovo lui e il suo partito, se non lo fa cambio rappresentante o addirittura schieramento. Il meccanismo che si è creato in Italia è diverso, e si è tradotto in una sorta di delegittimazione della politica. Mi attivo non per controllare che il mio rappresentante lavori bene, ma perché non mi riconosco in nessuna forza politica. Ancora: è normale e fisiologico che una parte della cittadinanza non si senta rappresentata dalle forze in Parlamento. Ma in una società sana si tratta di un fenomeno marginale: quando il sentimento si estende incontrollato a quasi metà dell’elettorato, la società può dirsi politicamente malata.

E sapete qual è il vero problema? Che questa ‘malattia’ è stata sì provocata da quell’evento eccezionale noto come “Tangentopoli” a cui alludevamo qui sopra, ma è stata poi nutrita e ‘coccolata’ da tutta una serie di pensatori e intellettuali che per anni, e spesso ancora oggi, hanno contrapposto per l’appunto la politica, caratterizzata sempre da tratti negativi quali la scaltrezza, la furberia, la mancanza di ideali, alla società civile, sempre descritta come pulita, ‘casta’, disinteressata. Alla dialettica ‘sana’, che vede la contrapposizione tra diverse forze politiche organizzate, sostenute eventualmente da gruppi di cittadini, si è sostituita una dialettica deleteria e perniciosa, quella che contrappone le forze politiche organizzate alla società, alle persone vere.

Mettendo a fuoco la questione in questi termini, non è difficile pensare a cosa può succedere e a cosa infatti è successo. Il Movimento Cinque Stelle è l’effetto più evidente del trionfo della retorica della società civile: magari il fine pensatore che negli anni Novanta cercava nei cittadini onesti il riscatto al fango che ricopriva la partitocrazia non poteva immaginarlo, ma Di Maio e Toninelli sono la conseguenza, peraltro facilmente prevedibile, di quel suo ragionare. E finora ci è andata ancora bene: quando i partiti scompaiono del tutto, arriva il momento dei generali e dei dittatori. È questo che vogliamo?

Va benissimo che i cittadini si attivino spontaneamente contro un potente che secondo loro va fermato. Ma se vogliamo che il nostro attivismo serva davvero a qualcosa, non dobbiamo opporlo alla politica ma affiancarlo a essa. Anziché schifare completamente i partiti, attiriamoli alle nostre manifestazioni e costringiamoli a misurarsi con i nostri temi. Il felpato vince a mani basse non perché è una specie di genio della politica, come sostiene qualcuno, ma perché ha dietro di sé una macchina organizzatissima, a livello operativo e comunicativo. Per sconfiggerlo serve a poco il ‘disimpegno’ di chi organizza una manifestazione anche enorme ma poi passa a occuparsi d’altro: serve una macchina altrettanto organizzata. Fatta di centinaia di persone esperte, di veri e propri funzionari, di persone cioè che si occupino della questione per tutto il tempo possibile. Ci servono lavoratori della politica per imporre le nostre ragioni: se continuiamo a scansare la politica ‘vera’, non avremo speranze.


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