Gli schiavisti-comunisti
1February 8, 2016 by Mosè Viero
Si è molto parlato, in questi giorni, della povera sorte toccata a Giulio Regeni, ricercatore universitario friuliano morto al Cairo in circostanze tutt’ora poco chiare, molto probabilmente dopo essere stato catturato e torturato dalla polizia egiziana agli ordini del presidente golpista Al-Sisi.
Si tratta di una vicenda scioccante, soprattutto perché rende palpabile il progressivo deterioramento del vivere civile in un Paese che noi occidentali abbiamo sempre ritenuto più avanzato e in genere più ‘tranquillo’ rispetto alla situazione generale del Vicino Oriente. Il sottoscritto, però, è stato toccato da questa vicenda anche per via di un suo aspetto secondario, infinitamente meno importante rispetto alla fine di una giovane vita ma comunque, credo, meritevole di attenzione.
Il buon Giulio non era un giornalista ma scriveva saltuariamente per vari giornali, tra cui Il manifesto, gloriosa testata la cui storia affonda nelle complesse vicende della sinistra italiana degli anni Sessanta: miracolosamente sopravvissuto a cambiamenti epocali e a crisi finanziarie gravissime, questo quotidiano è stato, soprattutto tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila, la pubblicazione italiana di gran lunga più interessante e approfondita nel panorama della cronaca politica e della riflessione su di essa. Oggi Il manifesto è l’ombra di ciò che era in quegli anni gloriosi e qualche volta quando lo prendo in mano ho l’impressione di essere davanti al risultato di un vacuo accanimento terapeutico: eppure non posso negare di trovarci ancora dentro, di quando in quando, approfondimenti introvabili sui quotidiani maggiori.
Epperò dopo la vicenda Regeni credo mi sarà impossibile tornare a mettere le mani su questo quotidiano, che pure è stato per me fondamentale strumento di crescita e di affinamento della passione politica. Qualcuno penserà che il problema sia il fatto che il giornale ha bellamente ignorato la diffida della famiglia e ha pubblicato, dopo la morte del Regeni, il suo ultimo articolo, che peraltro la redazione stessa, qualche settimana prima, aveva respinto. S’è trattato senza dubbio di una scelta opinabile: ma si sa, un quotidiano è come una fidanzata, difficilmente si andrà sempre d’accordo, il compromesso ogni tanto è necessario.
Il vero problema è un altro. Il manifesto si è vantato, nei giorni successivi alla morte del suo collaboratore, di dare spazio a tanti altri come lui: persone “curiose del mondo”, che pur non essendo giornalisti, anzi forse proprio perché non lo sono, riescono ad avere uno sguardo diretto e imparziale sulle cose che vedono durante le loro esperienze all’estero, e che scrivono gli articoli dettagliati e coinvolgenti per i quali la testata è giustamente diventata celebre. Lo stesso Regeni, riferisce la redazione, considerava Il manifesto “il giornale di riferimento” per quanto riguarda le inchieste indipendenti dall’estero.
Fin qui tutto bene. Quando però qualcuno, forse insospettito da quell’insistenza sul fatto che tanti collaboratori “non sono giornalisti”, ha provato a chiedere al giornale quanto e come questi collaboratori vengono pagati, la risposta del “quotidiano comunista” è stata sorprendente. Eccola:
Ora: se gestisci un’azienda in crisi, può essere necessario fare scelte dolorose (anche se tocca dire che, vista la vagonata di soldi pubblici che Il manifesto riceve da sempre, c’è il sospetto che dietro ci sia anche qualche problema di gestione). Però nel momento in cui rivendichi la tua scelta, forse a questo punto nemmeno troppo dolorosa, condendola peraltro con il disgustoso e reazionario argomento retorico del “piacere”, vuol dire che hai completamente perso la bussola. Il quotidiano dell’esaltazione delle lotte per l’occupazione e il salario dignitoso, sempre pronto a raccontare con piglio baldanzoso i picchetti e le trattative di sindacati semisconosciuti per ottenere mezzo euro in più all’ora, afferma in tutta tranquillità di pagare i suoi lavoratori “poco”, “tardi” e “spesso nulla”. Che dire? Toccherà fondare un altro “quotidiano comunista” per rendere conto delle lotte dei lavoratori de Il manifesto. Ah no, loro non lottano perché fanno tutto “per piacere”. Evidentemente sono ricchi di famiglia: forse sono aristocratici illuminati, che tra una partita a polo e una gita in yatch passano le loro oziose giornate “scrivendo, vivendo e osservando”.
Volendo essere un attimo seri, la faccenda è cruciale perché tradisce la debolezza con cui vengono vissuti, da tante persone sedicenti “di sinistra” (addirittura estrema, nel caso di un quotidiano che si definisce comunista), i principi su cui dovrebbe basarsi il progressismo moderno. L’equivoco potrebbe essere spiegato, in poche parole, come segue: siccome il capitalismo mi sta sulle balle e sogno un mondo libero dalla dittatura del lavoro, mi auto-affranco dai meccanismi del capitalismo, quando posso, facendo quel che faccio “per piacere”, appagandomi della mia crescita personale e cercando di ignorare la mia conseguente precarietà economica. Solo che, per una perversa eterogenesi dei fini, il mio comportamento finisce per diventare la realizzazione del sogno proibito di ogni imprenditore capitalista: lavoratori che lavorano gratis o quasi, e che per di più non se ne lamentano e anzi se ne compiacciono.
Se ne compiacciono perché attraverso il loro lavoro magari hanno modo di studiare e di crescere oppure di lottare per degli ideali, come dev’essere per i lavoratori sottopagati de Il manifesto. Ma nulla è più lontano dal progressismo, per non dire dallo stesso marxismo, del pensare che la salienza del lavoro sia sufficiente a rendere quest’ultimo indipendente dall’economia di mercato e in qualche modo a essa ‘esterno’. Se essere di sinistra vuol dire anche lottare per un mondo in cui non si sia schiavi del lavoro, la lotta deve cominciare qui e ora: e deve cominciare assecondando i meccanismi virtuosi del capitalismo, che Marx per primo riconosce ed elogia. Questo vuol dire che il lavoratore deve sempre far valere la sua forza contrattuale e soprattutto deve sempre rigettare il lavoro gratuito o malpagato, *anche se è un lavoro bellissimo*.
Ciascuno ha cominciato la sua rivoluzione nel momento in cui dà a quel che fa il giusto valore anzitutto in termini economici. Ignoreremo questi termini nel tempo libero dal lavoro: ma il tempo si libera dal lavoro solo se il tempo del lavoro è ben remunerato. E se a dire chi siamo non è tanto ciò che diciamo ma ciò che facciamo, Il manifesto è solo una piccola e squallida cooperativa che spreme i suoi lavoratori privandoli di tempo, dignità e libertà. Se chi si comporta così si auto-definisce comunista, non meravigliamoci se il mondo è pieno di anticomunisti.
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Elucubrazione raffinata, si parla di contraddizioni perverse. Mi piace.