Verso (la) Monet
0April 5, 2014 by Mosè Viero
Cosa fare quando un gruppo di affezionatissimi clienti, ormai veri e propri amici, ti invita a visitare una mostra dove hai giurato di non metter piede neanche sotto tortura? Ovvio: accetti l’invito, principalmente per via del pranzo in prestigioso ristorante, e osservi l’esposizione stando in disparte e guardando i dipinti col sopracciglio alzato, come si guarda un venditore veneziano di gondole di plastica made in Shangai. La mostra in questione è l’ennesimo prodotto seriale di quel killer della storia dell’arte di nome Marco Goldin: è dentro la Basilica Palladiana di Vicenza, si intitola “Verso Monet” e si propone di raccontare la storia del paesaggio dal Seicento all’Ottocento. Più concretamente, si tratta di una accozzaglia di tele di soggetto vario, ma con dentro sempre qualche elemento naturale, rigorosamente interpretato dalle schede in improbabile chiave ‘poetica’. Le opere sono disposte in frettoloso ordine cronologico, col malcelato intento di dimostrare il progressivo sviluppo del linguaggio pittorico fino all’apice assoluto, rappresentato (sorpresona) dagli Impressionisti. Un martellante battage pubblicitario spinge il pubblico a pagare l’esoso biglietto e a farsi intrappolare dentro sale affollate e soffocanti, mentre le grandi opere d’arte disseminate negli innumerevoli musei sparsi per il territorio giacciono semi-abbandonate in sale luminose e deserte.
Certo, bisogna ammettere che lungo il percorso non mancano i capolavori: per esempio, alcuni Canaletto provenienti da Oltreoceano meritano senz’altro la visione; alcune giovani e procaci guardasala, poi, valgono da sole il prezzo del biglietto. Il problema non sono le opere in sé, spesso degne di nota, quanto il contesto curatoriale in cui sono inserite: un contesto caratterizzato da un lirismo così sfrontatamente trash da sfiorare la comicità involontaria. I dipinti sono inanellati tipo sequenza di cartoline davanti a cui fermarsi ammirati come davanti a una torta al cioccolato nella vetrina di una pasticceria. Tra un quadro e l’altro, gli impagabili testi del curatore grondano retorica da tutti i pori: se avessi un euro per ogni superlativo che ho letto, potrei comprarmi la fontana di Trevi. Stordito dai periodi contorti e nebulosi, che fanno sembrare ogni opera il frutto di un tormentato percorso interiore, lo spettatore medio penserà di essere di fronte a un progetto culturale di clamoroso spessore critico: peccato che il peso accademico di Marco Goldin sia assolutamente inesistente. Quando in una università si parla di storia dell’arte e il discorso cade su Goldin, è come se si parlasse di fisica atomica e il discorso cadesse su Star Trek (cit.)
Bisogna dire che non ci vuol molto, neanche ai digiuni della materia, per smascherare il venditore di pentole travestito da fine intellettuale. Non bastasse la sua prosa da Bacio Perugina andato a male, può aiutare la sua sconfinata egolatria. Nel catalogo dell’esposizione, il nostro parla in prima persona, come se stesse scrivendo nel suo diario; i brani trascritti in mostra, poi, riportano ogni volta il suo nome a pié di pagina, che così si fissa nella testa del visitatore molto più dei nomi dei pittori. E questo è niente. Marco Goldin non si limita a curare mostre: per promuovere come si deve le sue “esperienze”, il nostro scrive spettacoli teatrali, musiche, canzoni. Il sito riporta la sua multiforme produzione, che va da saggi su Gauguin all’ultimo brano di Antonella Ruggiero (!), come se fosse la cosa più normale del mondo. Una mia amica che ha lavorato in una sua mostra mi ha raccontato che a tutte le candidate guide veniva dato, come materiale per la preparazione, non solo il catalogo dell’esposizione, ma anche un libro con le poesie di Goldin (libri di poesie di Goldin! Ne comprerei a dozzine, se solo avessi un camino). Se non basta neanche questo a farvi rotolare per terra dalle risate, scorrete i titoli delle mostre organizzate dal nostro eroe, che mettono insieme nomi famosi in modo del tutto insensato, perline per attirare i gonzi come le parole “spaghetti” e “pizza” nei menu per americani a Roma: “Da Van Gogh a Picasso”, “Da Corot a Monet”, “Gli Impressionisti e la neve” (in occasione delle olimpiadi invernali, ça va sans dire), “Raffaello verso Picasso”. La prossima mostra, sempre a Vicenza, si intitolerà “Van Gogh e Tutankhamon”. Sembra una battuta, ma vi giuro che è vero.
Potremmo concludere dicendo che siamo di fronte a un furbo venditore di un prodotto commerciale, tagliato e cucito addosso ai gusti del pubblico più sprovveduto e più ingenuo. Se fosse solo così, non ci sarebbe niente di strano e forse neanche nulla di cui preoccuparsi. Infatti chi critica le mostre trash di Goldin spesso è visto come il solito intellettuale duro e puro con la puzza sotto il naso. Di solito gli si risponde: “Tu dici così perché sei già un esperto, ma questa è una mostra dedicata al pubblico qualunque! Magari poi qualcuno di loro si interesserà e sarà spinto a studiare di più, no?”
No. A costo di sembrare esagerato, mi sento di affermare che dal mio punto di vista le mostre di Goldin sono *molto dannose*: esse rappresentano un vero e proprio affronto alle metodologie della ricerca storico-artistica, al nostro preziosissimo patrimonio monumentale, alla cultura in senso generale. Le mostre come quella che ho visto oggi a Vicenza non sono, come dovrebbe essere in un mondo normale, la conclusione di un percorso di ricerca che miri a comunicare qualcosa, possibilmente di nuovo e di interessante, al pubblico: sono operazioni commerciali *costruite sul nulla*. Anzi, peggio: costruite sull’assunto che l’opera d’arte debba comunicare sulla base del sentimento, del trasporto interiore, dell’irrazionalità. Tutti elementi che Goldin contrappone scientemente, e con una certa soddisfazione, alla supposta aridità dello studio e dell’approfondimento scientifico. L’idea, tremendamente reazionaria come ogni idea che semplifica, è che l’arte comunichi a tutti indifferentemente: che un quadro possa emozionare un profano come un esperto, allo stesso modo. L’implicazione è che lo studio approfondito debba restare appannaggio di una ristretta cerchia di specialisti, indicati spesso dal nostro eroe come una casta noiosa e ripiegata su se stessa: se l’Iperuranio è a portata di mano e per arrivarci basta un’occhiata a un “bellissimo” Van Gogh, perché dovrei impegnarmi a studiare? In un tripudio di becero neoplatonismo, queste mostre celebrano l’irrazionalità come via privilegiata alla conoscenza: la loro sequenza insensata di “capolavori” è un cosciente invito a crogiolarsi nella rassicurante mollezza dell’ignoranza.
Naturalmente, la realtà è esattamente il contrario di quel che queste mostre pretendono di spiegarci. Nella realtà, l’opera d’arte ti ‘parla’ solo se hai orecchie per ascoltarla. In altre parole: solo se riesci a leggerla in quanto documento storico e culturale. L’emozione che molto pubblico ignaro pensa genuinamente di provare davanti a un Monet è in larga misura auto-indotta: dato che siamo bombardati da messaggi che ci dicono che quell’arte è “bellissima”, ci auto-convinciamo che lo sia, così da non dare troppo nell’occhio. Così, da strumento di autentica elevazione, l’arte diventa strumento di educazione al conformismo. Nelle mie visite guidate, io mi diverto a cercare di infrangere questa colossale ipocrisia: ed è con un misto di stupore e rassegnazione che osservo gli sguardi indignati di certi clienti quando affermo, per esempio, che Tiepolo è uno squallido imbrattatele o che Giorgione a stento riesce a dipingere una figura che riesca a stare in piedi senza scivolare fuori dal quadro.
La cultura deve servire a stimolare il pensiero critico: a omogeneizzare le opinioni ci pensano già la televisione, il calcio, i grandi giornali. Compito dell’intellettuale, e quindi anche del critico d’arte, è farsi carico della costruzione di questo pensiero critico: lanciando messaggi stimolanti e spiazzanti, ed evitando rigorosamente di dare al pubblico ciò che il pubblico vuole. La maturazione dello sguardo sull’opera d’arte, per restare all’oggetto dell’articolo, è un percorso lungo e faticoso: ma questo non significa per nulla che debba essere noioso o poco interessante. La colpa irrimediabile delle ‘goldinate’ è contrapporre la noiosa ragione dello studioso al raggiante sentimento del pubblico ignorante, contribuendo a perpetuare l’equivoco secondo cui esisterebbero materie umanistiche per palati sensibili e svampiti e materie scientifiche per palati raziocinanti e aridi. L’idiozia più idiota che si possa pensare: in tutte le materie, anche e soprattutto nell’arte, è necessario un approccio scientifico, perché senza un serio approccio scientifico nessuna autentica passione può davvero dischiudersi.
Le mostre come “Verso Monet” rappresentano la quintessenza della devastazione fisica, morale e culturale del nostro Paese. Che operazioni così culturalmente meschine possano essere promosse da un privato assetato di denaro e di facili consensi può essere comprensibile. Che questo privato trovi sponda nelle istituzioni pubbliche è gravissimo, e comunica con grande chiarezza quale sia l’idea di arte e di cultura che gira nelle stanze degli amministratori comunali, provinciali, regionali e statali. Come operatore culturale, il mio piccolo e insignificante grido davanti a questo scempio è: resistere, resistere, resistere. Non pieghiamoci davanti alla logica perversa dell’arte ridotta a ninnolo inoffensivo da vendere a clienti inconsapevoli: ne va davvero del nostro futuro.
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