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Madamina, il catalogo è questo

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June 15, 2014 by Mosè Viero

Chi ha la sventura di fare la guida turistica (anziché un lavoro più tranquillo, tipo il disinnescatore di bombe) deve prima o poi entrare in contatto con la tipologia di pubblicazione più insensata mai partorita nella storia del libro a stampa: il catalogo di mostra. Per chi non è del mestiere, trattasi di manufatti ingombrantissimi, composti da pagine spesse come le corazze dei cartaginesi e caratterizzati da un formato e da un peso del tutto inadeguati a qualunque tipo di utilizzo. Quando ero giovane e innocente, mi chiedevo il motivo dietro a sì scarsa maneggiabilità. Ora penso di averlo capito: gli editori, in un raro momento di lucidità, devono aver deciso di renderli inaccessibili in quanto consapevoli del fatto che il loro utilizzo può causare l’insorgere di ripetuti moti d’ira del tutto incontrollabili.

Per perdere la ragione è sufficiente l’approccio con la lingua adoperata dall’autore medio di saggi introduttivi o di schede di analisi delle opere. Nella quasi totalità dei casi, trattasi di un italiano inutilmente contorto, pieno di subordinate, caratterizzato da periodi così lunghi che a leggerli tutti d’un fiato si rischia l’embolia. L’impressione è che il critico d’arte, forse consapevole del fatto che sta scrivendo aria fritta, cerchi di darsi un tono stordendo l’innocente lettore tramite improbabili circonvoluzioni lessicali. Di solito basta una lettura un minimo attenta per far crollare la baracca: l’italiano adoperato dai critici d’arte non è solo vacuo e retorico, è anche clamorosamente stentato. Nel catalogo che ho attualmente sottomano, per dire, si passa con disinvoltura, nella stessa scheda, dal passato remoto al presente storico. E non si contano le occasioni in cui a un soggetto maschile si affianca un aggettivo femminile, o a un soggetto singolare un aggettivo plurale (per forza: se il periodo è lungo venti righe, anche le concordanze più banali diventano un impegno per il quale si deve assumere un segretario).

Tutto ciò, peraltro, è niente rispetto alla caratteristica più infame, e ahinoi più diffusa, della strana lingua ‘parlata’ dai critici d’arte dentro i cataloghi: la citazione diffusa e continua, la citazione “a grappolo”. Il compilatore di schede per mostre d’arte non parla come noi comuni mortali: parla solo per ipse dixit. Ogni concetto espresso dal nostro eroe viene non solo confermato ma anche comunicato ab origine tramite citazioni da altri critici o dall’artista stesso o da un suo amico o parente. La citazione non è annessa al testo o riportata in nota: la citazione *è* il testo, e il contributo del critico si limita alle congiunzioni o alle disgiunzioni tra una citazione e la successiva. Esempio tipico:

Nel Ritratto di Pinco Pallo, l’artista “evoca la leggiadria dell’estate parigina” (Sbordelli 1942), riuscendo però anche a “imprimere nello sguardo la follia dell’esistere” (Cazzoni 1987), sguardo che, a detta della moglie, “mi stregava tutte le volte che lo guardavo osservare la luce fioca del tramonto”.

I testi di tanti cataloghi sono *tutti* di questo tenore. Anche senza voler essere troppo cattivi, e quindi anche senza voler per forza affermare che chi scrive in questo modo è solo un cazzaro che fa copia e incolla e non ha neanche il coraggio di mettere la faccia su quel che scrive o di esprimere un concetto inedito, sorge spontanea una riflessione. Perché, nell’anno di grazia 2014, mi dovrebbe interessare quanto detto da un critico nel 1942? Non è che magari adesso la lettura critica risalente a quegli anni è leggerissimamente sorpassata? Questo è un problema gravissimo nell’ambito delle cosiddette materie “umanistiche”. Mentre uno scienziato che tirasse in ballo *adesso* le idee di cento anni fa per spiegare un certo fenomeno naturale farebbe immediatamente la figura del cretino, un critico d’arte o un critico letterario che pretendono di spiegare un quadro o una poesia citando un testo di cento anni fa sembrano assolutamente normali, anzi rischiano perfino di apparire come insigni eruditi. Forse sarebbe il caso di cominciare a urlarlo di fronte a dio, agli uomini e alla storia: se vogliamo che la critica d’arte faccia dei passi in avanti, magari bisogna anche, ogni tanto, dire qualcosa di nuovo. E magari bisogna anche avere il coraggio di dare letture critiche innovative, che non temano il ribaltamento di tradizioni ben radicate. Perché anche la critica d’arte ‘scade’, proprio come le teorie scientifiche. E l’analisi di un’opera d’arte non è o comunque non dovrebbe essere la ricostruzione della sua fortuna o sfortuna critica. Come non dovrebbe essere la ricostruzione delle vicende collezionistiche, un altro (inutile) ambito in cui i critici amano scatenarsi per pagine e pagine.

L’analisi di un’opera d’arte dovrebbe essere, piuttosto, la sua lettura stilistica e soprattutto iconologica. Perché l’opera d’arte è anzitutto un documento storico, essa stessa. Se per parlarne non fai che citare altri documenti storici, è come se mi stessi implicitamente dicendo che l’opera in sé non dice niente, o non conta niente. A questo proposito, resto sempre a bocca aperta quando mi imbatto in una scheda di catalogo che non riporta *alcuna descrizione* dell’opera in oggetto. Sembra che il novanta per cento dei critici d’arte stia ancora vivendo nell’epoca pre-panofskiana. E se non ci interessa la lettura pre-iconografica (vale a dire la descrizione nuda e cruda), figuriamoci se ci può interessare la lettura iconografica o la lettura iconologica. Molto meglio citare il commento del cugino della moglie del pittore, o di un celebre critico morto nell’era quaternaria.

Se molti pensano che la critica d’arte sia l’apoteosi del nulla, o che sia irrimediabilmente noiosa e avulsa dalla realtà, è anche per questi motivi. È del tutto inutile alzare alti lai quando la politica toglie sostegno e finanziamenti all’arte e alla cultura se quelli che dovrebbero essere i protagonisti stessi del dibattito culturale mostrano una così scarsa consapevolezza riguardo alla natura del proprio ruolo e una così scarsa capacità di incidere nel discorso sociale. Continuando in questo modo, il mondo dell’arte si condannerà da solo alla non-importanza: non servirà nemmeno l’intervento insipiente della politica. Caro critico d’arte: metti da parte i tuoi tomi polverosi del secolo scorso e comincia a guardare le opere d’arte, poi a descriverle con un italiano scorrevole e gradevole e magari anche a tentare la tua personale interpretazione delle stesse. Il resto verrà da sé.


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